Libera interpretazione degli enunciati al termine del film “Human Nature”

“Quando alcune cose sono conosciute, di cui una è inerente all’altra, oppure si pongono in una relazione distante ma localizzata, la mente immediatamente riconosce, per virtù del normale apprendimento di quelle cose, se siano inerenti o no, se siano distanti o no.”

La mente opera una sintesi delle cose che (ri)conosce, una sintesi differenziale, efficace a fornire un giudizio in merito alle cose percepite.

“Così altrettanto con altre verità contingenti, ed in generale con qualsiasi supporto percettivo del termine; ossia della cosa e delle cose per mezzo delle quali, una verità contingente specialmente riguardante il presente, non può essere conosciuta.”

Poiché la mente riconosce le cose che conosce (a posteriori), non può farlo con tutto ciò che accade contingentamente, ma solo con ciò che passa per la percezione.

“Nello stabilire gli assiomi con questo tipo di induzione, bisogna iniziare ad esaminare l’assioma così prestabilito, strutturandolo con i criteri di quelle informazioni e con quelle dalle quali è derivato.”

Osservando la natura percettiva della nostra realtà, è possibile supporre una realtà immaginata, purché coerente con la realtà fin lì percepita, immaginabile esclusivamente come rappresentazione della medesima, o in qualsivoglia rapporto con essa.

“E osservare se sia più vasto o ampio.”

Una volta percepito l’immaginario, si può dunque rapportare con la realtà sensoriale.

“E se infatti è più vasto o ampio, dobbiamo capire, attraverso l’indicazioni di quelle informazioni assolute, se sia più vasto o ampio per mezzo delle sicurezze collaterali.”

Il gatto sembra mordersi la coda. Una volta realizzato l’immaginario, la misura di quanto immaginiamo è in relazione con l’esperienza dei precedenti confronti di ciò che facciamo riconoscendo la realtà percepita e mettendola in relazione con la realtà immaginata. Di conseguenza, possiamo riconoscere la qualità delle nostre percezioni, relazionandole lucidamente al corpo delle medesime (apprendimento?).

“Poichè non possiamo, nè immettere pensieri nelle cose già conosciute, nè genericamente inseguire ombre e forme astratte. Poichè non possiamo, nè immettere pensieri nelle cose già conosciute, nè genericamente inseguire ombre e forme astratte in oggetti solidi e costruiti cioè fatti di materia.”

In sintesi: non produciamo realtà. La riconosciamo o in relazione al nostro vissuto in ciò che percepiamo di quanto ci circonda, o in relazione al corpo coerente nelle suggestioni che otteniamo nel pensare.

Riesco solo a dirmi che dovrei fare pensieri migliori.

Non è così difficile. C’è un tavolo, ad esempio. Un tavolo in una bella casa. Una casa che non conosco, ma che posso chiamare ugualmente casa. Solo perché ci sei anche tu.
E visto che ci sei anche tu, sono felice. Siamo felici insieme, anche se in stanze diverse. Perché mentre tu non sei qui affianco, io sono seduto a questo tavolo. C’è un orologio che ticchetta, che quando scandisce le ore, fa cantare degli uccellini. Il cinguettio segue la scansione del giorno: ora è più forte, ora è più gentile, a seconda che sia pomeriggio, o sera. C’è dell’acqua che bolle. È inverno, da fuori vengono i rumori dei copertoni delle macchine. Tu sei nell’altra stanza, non so perché ci metti tanto. Dovrei alzarmi, forse; dovrei muovermi verso di te, verso lo spazio che adesso  è nascosto ai miei occhi, dove si consuma il mistero.

Il tè è buono. Come questo libro, come me. Io sono buono, io ho raggiunto la temperatura giusta. Scorro bene. Sono alto un metro e settantasei, peso settantun chili. Sono un po’ miope. Suono il pianoforte. Ti vorrei fotografare, scrivo. Io sono buono, io ti penso.
Di te non so niente. Mi piace quella tua aria, il timbro della tua voce. Vorrei toccare le tue dita, sentire di che sa il risvolto del colletto della tua camicia. Vorrei osservarti mentre scegli qualcosa, sentire quello che hai da dire, ascoltare il tuo parere sui miei sbagli. Vorrei poterti ringraziare per un nonnulla, sentire di poter pretendere tutto da te, gratificare la tua fiducia.

Sono in piedi sulla porta fra le due stanze. Mi sbagliavo. Io sono qui, adesso. Non sono nella stanza dov’ero prima, non sei nella stanza in cui credevo tu fossi. Ho le tue parole, e la mappa dei tuoi lineamenti. Nella toppa della porta ci sono le chiavi.
Basta girarle, uscire. Cercarti. Fare. Condividere.
Resto sulla porta fra le due stanze.
Ho delle cose da sbrigare.

Happy New Asshole!

Sì, ecco.

Fabbrichiamo portachiavi. Giochiamo a scacchi sul nucleare. Coloriamo tutto dello stesso colore. Esplodiamo viullenza. Fracassiamo vetri, mangiamo male, scopiamo poco, parliamo ancora meno. Ridiamo a tempo. Boicottiamo il Brasile. Perdiamo Yara. Sporchiamo dove cammineremo. Infliggiamoci vasectomie. Esigiamo solo il piacere. De-localizziamo l’occupazione. Creiamo pretesti. Filmiamo il salotto degli assassini. Scattiamo foto senza stamparle. Blasoniamoci di parole vuote scritte dagli altri. Abituiamoci alla trincea. Impiallacciamo il cartongesso. Traspiriamo senza sensi di colpa. Sorprendiamo i cattivi odori. Inventiamoci terzi e quarti sessi. Scusiamo se è poco. Indigniamoci se non è abbastanza. Tentiamo di vincere ai dadi le nostre stesse vesti. Immoliamo il coltello, affiliamo il l’agnello. Cementifichiamo gli stipendi. Facciamo schifo. “Ama il prossimo”. “Ammazza il vicino”. “Chiudi bene prima di andare a dormire”. “Dona anche tu un SMS per Haiti”.
Divertiamoci a rendere complicata la vita degli altri. Contiamo gli errori. Denunciamo gli eccessi che non ci avvantaggiano. Non buttiamo nulla, che non si sa mai. Cambiamo più cellulari che dentizione. Inoculiamo inchiostro all’interno della nostra cute in maniera irreversibile. Addestriamo i nostri linfonodi. Trapiantiamoci nuove mani. Andiamo a dormire subito dopo aver timbrato il cartellino. Scegliamo in assoluto la maniera più conveniente per farci fregare. Tanto tutto ha un prezzo. Siamo cresciuti, adesso: perché credere all’amore e alla gratuità e alla pace e alla giustizia? Siamo cresciuti, adesso: perché invecchiare? Ci stiamo divertendo, adesso: perché morire?

Prima o poi mi fermerò a tanto così.

Avoid any possible contact

Toni pacati, mani in tasca. Un passo dopo l’altro, solo occasionalmente spiare negli occhi delle facce di chi ti viene incontro. Hai dei segreti da nascondere, molli carcasse di animali morti chiuse in gabbie di cui non hai più la chiave. Ogni tanto ti fermi. Guardi per aria, speri che quell’azzurro nasconda una Volontà che possa pensare anche di amarti. E devi fare qualcosa per quelle fitte al torace. Improvvise, subito passeggere.

Un giorno torni a casa e scopri che non c’è il tuo nome sul campanello. Che la tua roba è chiusa al di là di una porta a cui è stata cambiata la serratura. Dalla finestra semichiusa riconosci la suoneria del tuo cellulare, ma non puoi entrare a rispondere. Aspetti.

Ti allontani. Dici: “tornerò più tardi”.

Torni, ma c’è un cane da guardia. C’è la sconfitta, la desolazione.
Accetti la più devastante delle tue svariate e ulteriori privazioni di spazi. Come puoi ben vedere, ora c’è una riga rossa tracciata nel bel mezzo della tua gola. Non puoi che tacere.

Vaghi. Laggiù c’è qualcosa di scuro. Un riferimento legnoso. Massiccio. C’è tanta gente che sorride, c’è buona musica, ci sono ottime sensazioni refrigeranti, rifocillanti.
Qualcosa non va. Sai che è una situazione provvisoria. Puoi solo farti riservare una sedia, ma devi sempre tenere a mente con precisione millimetrica i confini in cui puoi spalancare le tue narici.

Vaghi. Guidi. Non-persona in non-luogo, così intenta a non-vivere non-relazioni.

Vaghi e finalmente non sei più perso. Il tuo corpo ha imparato bene. Con un colpo di frusta, “AH!”, ti sei condizionato in nuovi binari. Dalla piattaforma (“viet ato – a tt r ave rs ar e – l a – r i ga – g i a l l a ”) cerchi di scrutare la data di oggi sul quotidiano che l’uomo al di là dal vetro, sulla carrozza, sta leggendo. Cerchi dei numeri, una foto, un nome, una didascalia. Vuoi così tanto miscelarti nelle storie degli altri. Così puoi addirittura raccontare qualcosa, e cesserà così questo assordante silenzio.

Vaghi con gli occhi. Alberi, palazzi, cantieri, macchie rosa e macchie marroni, automobili, biciclette, bilici, campi di mais, mattoni, tubi, ambulanza, polizia, autovelox, striscia e guard-rail ritmici, fossati, batterie esaurite, corsi d’acqua putridi, foglie morte, pacchetti di sigarette, portoni, finestre, vecchiette che si sporgono, televisioni accese dietro le tende, parchimetri, due centesimi, carrelli della spesa, fermate dell’autobus, accampamenti di nomadi, ospedali, un’oca, mietitrebbiatrici, uomini in giacca, donne con il velo, il mare, avanzi di cibo, scolaresche che fanno “ciao”, coltelli, un morto di fame che dorme, mucchi di trinciato, moli del porto di Desenzano, la chiesa di Castenedolo, il termovalorizzatore. Stop. Tu che siedi sulla ringhiera di un parco di Sirmione, e sorridi.

Stringi tutto. Stringi le mani. Stringi il bicchiere. Stringi rapporti. Stringi le parole. Stringi i pugni. Stringi il volante. Stringi una sconosciuta. Stringi i denti. Stringi delle viti. Stringi il coperchio del barattolo. Stringi il significato della parola “stringere”. Stringi i colori ad olio. Stringi il volume dello stereo. Stringi il tuo addome. Stringi i tuoi respiri. Stringi un cuscino.
Ti stringi forte ai tuoi sogni.