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– Portava fra le braccia dei disgustosi, inquietanti fiori gialli. Sa Dio come si chiamano, ma per qualche motivo sono i primi che appaiono a Mosca. E questi fiori spiccavano nettamente sul suo vestito nero primaverile. Portava dei fiori gialli! Brutto colore. Svoltò dalla Tverskaja in un vicolo e qui si voltò. Be’, conosce la Tverskaja? Sulla Tverskaja passavano migliaia di persone, ma le giuro che lei vide solo me e mi guardò con espressione non inquieta… addirittura quasi morbosa. E mi colpì non tanto la sua bellezza quanto la straordinaria, indicibile solitudine nei suoi occhi! Obbedendo a quel segnale giallo, anch’io svoltai e la seguii. Camminammo in silenzio per lo storto, uggioso vicolo, io da una parte, lei dell’altra. E nel vicolo, s’immagini, non c’era anima viva. Io mi tormentavo, perché mi sembrava che fosse indispensabile parlarle, e temevo che non sarei riuscito a dirle neppure una parola, che se ne sarebbe andata e non l’avrei mai più rivista. E, s’immagini, a un tratto fu lei a parlare:
– Le piacciono i miei fiori?
Ricordo perfettamente come risuonò la sua voce, abbastanza bassa, ma con bruschi sbalzi, e per quanto la cosa sia stupida mi sembrò che echeggiasse nel vicolo e rimbalzasse sullo sporco muro giallo. Passai rapidamente dalla sua parte e avvicinandomi risposi:
– No.
Mi guardò stupita, e all’improvviso, e del tutto imprevedibilmente, capii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei naturalmente dirà che sono pazzo?
– Non dico niente, – esclamò Ivan e aggiunse: – Vada avanti, la supplico!
E l’ospite continuò:
– Sì, mi guardò stupita e poi, dopo avermi guardato, mi chiese: – Non le piacciono i fiori in genere?
Nella sua voce c’era, mi parve, dell’ostilità. Io camminavo accanto a lei, sforzandomi di tenere il suo passo, e, con mia grande sorpresa, non mi sentivo affatto imbarazzato.
– No, mi piacciono i fiori, ma non questi, – dissi.
– E quali?
– Mi piacciono le rose.
Allora mi pentii di averlo detto, perché lei fece un sorriso colpevole e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Benché un po’ smarrito, tuttavia li raccolsi e glieli porsi, ma lei, con un sorrisetto, respinse i fiori, e li tenni in mano io.
Così camminammo in silenzio per un po’ di tempo, finché lei non mi tolse di mano i fiori, li gettò sul selciato e poi infilò la sua mano dal guanto nero svasato nella mia, e proseguimmo accanto.

Estrarre, tirar fuori

Ribes! Galeotto fu il tuo post.
Ma galeotte furono molte conversazioni e fatti accadutimi.
Oggi sono abbastanza lucido: capisco qualcosa dell’origine del mio malessere nei confronti suoi.
Lei vive, io sopravvivo. Cioè, è quel che ho creduto di fare, quel che ho avuto intenzione di fare. Smettere di pensarla così è difficile, tutti voi probabilmente lo sapete meglio di me. Io sono l’idiota sentimentale; non “un”: “il” (sottolineato tre volte).
Riconsidero a sprazzi i brandelli della teoria secondo cui, in un rapporto adulto fra maschio e femmina, l’uomo deve instaurare un rapporto dispari con la donna, aumentando in lei il senso della dipendenza da lui. Ciò è esattamente il contrario di quanto sto facendo da cinque anni a questa parte. La paura mi ha fregato completamente. Una paura che trae origine da un certo egoismo, lo ammetto, e che poi ha inquinato ogni altra scintilla vitale scaturita in seguito. Non accetto critiche, non mi metto in gioco; che poi: non sempre, eh. Ci mancherebbe.
Ma andate avanti voi. Pregate voi. Studiate voi. Suonate voi. Organizzate voi. Io mi prendo il diritto di dissentire, rifiutare, trasgredire, giudicare. Da questa parte tutto è concesso… anche controllarti e spiarti, pensarti e ossessionarmi di te, e anche non solo di te. Tengo in tasca organi vitali grondanti sangue, che mi macchiano le mani d’un sangue invisibile agli altri: ogni freddo è una scusa per fregarsi addosso dolorosamente le nocche screpolate di pugni chiusi in silenzio e al buio. Mento avanti e occhi bassi, repliche in voce tremolante, supposizione muta.
Adesso basta, però. Adesso basta davvero.
Cambio. Decido che, al massimo, tu avresti dovuto dipendere da me. Ogni strada s’inizia col primo passo, e il primo passo è che non m’importa più se ti piaccio. Tu mi devi piacere, e così distante e interraziale non mi piaci per niente. Non so chi sei, Dea imperscrutabile, ma da cinque anni la genuflessione non porta né benedizioni, né miracoli. Solo incidenti e maledizioni.
Per un po’ io sono stato Dio; mi piaceva, ero nel giusto posto, là in alto, a crogiolarmi fra gli olocausti, le tavole della legge, i diluvi universali. Dio greco, capriccioso e umano, pazzo e nudo e vizioso. Un Dio romano, temporaneo e vano. Hai smesso di adorarmi, l’impalcatura è crollata. Ho trascinato ridicole vesti tutto intorno per farmi incensare nuovamente, e giustamente non è servito: il Dio non ti viene a cercare per essere adorato. Lo si adora e basta. L’adorato è diventato adoratore; l’uomo, donna. Recupero il senso di essere uomo, mi rimetto al centro della mia vita, dove succedono le cose che voglio che accadano.
Il medico siede sul tram affollato, fino a che non la rivede attraverso il finestrino.
Un mare di sangue e di passato allora comincia a liberarsi trasudando dalle crepe della diga, ora debole. Una mano sul petto è l’ultimo tentativo di arrestare l’emorragia.
Il primo colpo è inferto con una tale forza! Il medico si alza per reazione, boccheggia: può solo scendere al volo dal mezzo pubblico. I suoi passi errano dietro la scia di lei, che inconsapevole, marcia lungo il suo presente di aspettative, carriera, incontri, pomeriggi programmati. Il medico non può più parlare: la gola è serrata dalla gioia e dal dolore e dalle lacrime, la mano destra (l’unica utilizzabile) è un pugno allo stremo della tenuta. Il cuore impazzito è ormai incontenibile.
Grida il suo nome, ma è una smorfia muta: la maschera si muove e agita solo aria nelle vicinanze del suo naso vibrante. Un occhio scruta l’orizzonte sfumare giacché turbina in una spirale verso il grigio marciapiede; agitazione e mani e passi gliela nascondono per sempre al di là dell’allarme e degli aghi nel petto, dei chiodi nelle vene. C’è pace, adesso, al ritmo dei suoi passi in rapido allontanamento. Lei non saprà mai che dietro di lei è diventato freddo e morto un uomo, mentre il mondo proseguiva i suoi affari.

Sul pavimento

Si stese sul pavimento. In tutto il tempo precedente gli occhiali gli erano scesi un po’ sul naso. Ora che stava in posizione supina, la gravità lo incollava per terra come carta moschicida: quel magico magnetismo gli tirava la pelle sugli zigomi, lo calcava, gli riallineava le vertebre. Poteva sentire la direzione dei suoi occhi verso il soffitto, come fosse una colonna unta attorno alla quale la logora montatura dei suoi Persol da miope faticava a rimanere aggrappata. La vista migliorò lentamente, mano a mano che la distanza occhio-lente diminuiva di quasi sette o otto millimetri. Sette o otto millimetri sono una distanza talvolta così incolmabile, più o meno come quella che separa le vite dei passeggeri di una filobus affollata, costretti a strusciarsi gli uni con gli altri nella maniera più anonima, educata, fredda e scollegata possibile. Quel pomeriggio non aveva grandi programmi, se non quelli di lasciar soccombere tutti i grandi progetti che gli sovraccaricavano il cuore, restando immobile a raffreddarsi i reni sul pavimento gelido. “I giorni passati sono una distanza ancora più invalicabile”, concludeva, pensando alla data in procinto di cambiare per sempre da lì a dieci ore. Un altro giorno svogliato in un pomeriggio senza parole o condivisioni, senza costruire o distruggere niente: “assedio”! Lo svilimento sentimentale continuava frattanto il suo monotono lavorìo sottocutaneo, e si lasciava entrare in circolo come sempre. Una nuova dose di farina per il sangue, così per rendere più impastato e colloso ogni nuovo battito del pugno nel petto (mea culpa – mea culpa – mea culpa – mea culpa… ora e sempre, in secula seculorum, amen). Dalla sua posizione di vero tappeto, considerava le bassezze cui era giunto, e tutti questi pensieri gli servivano solo per fabbricare cellophane atto a impacchettare sentimenti in ingresso e in uscita, o anche solo quelli da conservare. I cari vecchi sentimenti! Simili a vecchie scarpe, o a vecchi soldati: li guardi e riconosci il loro decadimento fisiologico come testimonianza di un’importanza attribuibile solo alla loro anzianità. “Non ne godrai mai più l’uso, e venererai per sempre il rituale monumentale a perenne ricordo di fiabe e leggende”, pause e parole che non ci sono mai state, gesti ricreati, giustizie e torti filtrati da qualche dozzina di indie-movies. Rimaneva immobile alla vista del cartello “FALLIMENTO!”, gigantografia in caratteri rossi al neon che aveva sistemato proprio vicino alle sue grandi passioni. Non trovava motivo di sbarazzarsene: lo teneva acceso e lo fissava come uno specchio, tentando di spiare tracce dell’invecchiamento. Magari qualche ruga attorno alle lettere “FALL”, oppure una nuova, più visibile, rotondità della “O!”. Osservava con preoccupazione il tremore nella luminosità della scritta, sempre più percettibile mano a mano che i giorni, e poi le settimane, e infine gli anni, fiumavano verso il Grande Mare. Certe mattine spegneva la scritta, e allora poteva rilevare i contorni scuri di muffa e polvere seguire il profilo precedentemente occupato dalla luce. Una spolverata, o una mano di vernice, e tutto sarebbe stato mantenuto. Il mantenimento è fondamentale per accanirsi in direzione ostinata e contraria ad un mondo che vuole andare andare andare andare andare
I pugni. Le palpebre chiuse sul movimento oculare. I pantaloni della tuta blu con le strisce gialle. L’indolenzimento della parte alta della schiena. Il fastidio sotto i calcagni. Il freddo alle chiappe. L’adesione delle gambe e delle cosce al pavimento. Fermo, fermo! Corpo morto, e il silenzioso oceano immaginario a ribollire di immagini dentro la testa senza controllo volontà intenzione pietà umorismo gioco intelligenza sogno eccitazione amicizia elezione possibilità vita errore
In prospettiva era un ottimo cadavere, così innamorato del passato da volerne già farne parte definitivamente. Adorava fantasmi, vizi e ragazzine, senza avere la capacità di afferrare tutto questo, ma solo di subire e subire l’implacabile avanzata del domani, teso a rubargli la necessità di agire adesso.
Squilla il telefono.
“Hai da fare?”
“Sì, devo sistemare / devo suonare / devo studiare / devo fare dei lavori al PC / …”
“Noi si va più tardi a bere una cosa.”
“Io pensavo di andare al cinema.”
“Cosa danno?”
“Ozpetek.”
“Magari ci vediamo più tardi al pub.”
“Va bene.”
Alzarsi, guardare scomparire la scritta, veder comparire il totem del Dovere. È una statua di legno, molto 3D, che puoi osservare da più direzioni dalla stessa prospettiva. Negli angoli contiene occhi e smorfie, talvolta le smorfie baciano l’iride degli occhi, ma è un bacio dato con i denti, succhiando e smozzicando mezze frasi. Le fila di denti sono quadruple, negli interstizi vi sono grumi di cielo e frammenti di luce. Vi è della barba nelle pieghe delle facce, ma è una barba pettinata. Il totem cresce, il totem fa un casino bestiale, e ti punge la schiena con il sottilissimo ago di gomma, che non puoi spezzare, e che troverà sempre la maniera di pungolarti, data la sua flessibilità. Guardava e riguardava il totem, e capiva che era ora di alzarsi, ma non c’era tempo, non c’era, e tuttavia si alzava, e allora metteva un braccio nella braga di un pantalone e l’altro nel colletto della camicia, e intanto ripassava gli appunti scritti sei anni fa. E poi dava un calcio ad un mucchio di libri, perché si disponessero in ordine alfabetico, per autore e cronologico nella libreria, solo che non c’era posto, allora andavano ad ammucchiarsi sullo stereo. Doveva far presto, presto! Correva lungo il corridoio nella luce del finestrone in fondo, e non riusciva a capire se aveva preso tutti i documenti. La valigia pesava. Le chiavi saltavano su e giù nell’ampia tasca destra, facendo un rumore metallico e ritmico – frin! frin! Bisognava assolutamente terminare, e mancavano solamente 29 giorni. E bisognava esercitarsi prima che facesse buio, ma solo dopo le 16. Intanto che aspettava l’ora giusta, magari era il caso di stirare i calzini e lavare lenzuola e federe di cuscini. Aveva un appuntamento a pranzo, ma prima c’era da bere il caffè col Presidente. Avevano pagato l’abbonamento alla televisione? La posta non aveva ancora finito di scaricarsi, ma bisognava riavviare perché l’installazione degli aggiornamenti era terminata. Suonano il campanello: “siamo pronti, andiamo, andiamo!” Erano finite le pastiglie della lavastoviglie, mancavano solo due pagine alla fine del capitolo, c’è da scendere alla prossima, ieri non sono riuscito a venire perché non stavo bene. Il suo telefono continua a squillare libero, ma lei non risponde, trovo le pagine del vecchio diario, apro la finestra, spengo la televisione, abbasso la radio, schiaccio il pedale, alzo la mano, salgo sull’automezzo, faccio un errore, cancello una scritta a matita, lei non risponde, vado ad un appuntamento, bevo una birra, rispondo al telefono, mi affretto verso la fermata, spero di poterla incontrare ancora, metto un post nel blog, faccio gli auguri, aspetto di sedermi sulla poltrona del dentista, lei non risponde, chiudo gli occhi al buio del cinema, sono sdraiato sul pavimento. Si doveva rialzare.

NO TAV: appello di don Ciotti per un tavolo di confronto.

La situazione di tensione in Val Susa ha raggiunto e superato il livello di guardia. La contrapposizione muscolare di questi mesi degenera in episodi di violenza e di esasperazione che stanno provocando danni incalcolabili nel fisico delle persone, nella coesione sociale, nella fiducia verso le istituzioni, nella vita e nella economia dell’intera valle. Ad esserne coinvolti sono, in diversa misura, tutti coloro che stanno sul territorio: manifestanti e attivisti, forze dell’ordine, popolazione.
I problemi posti dal progetto di costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione non si risolvono con lanci di pietre e con comportamenti violenti. Da queste forme di violenza occorre prendere le distanze senza ambiguità. Ma non ci si può fermare qui. Non basta deprecare la violenza se non si fa nulla per evitarla o, addirittura, si eccitano gli animi con comportamenti irresponsabili (come gli insulti rivolti a chi compie gesti dimostrativi non violenti) o riducendo la protesta della valle – di tante donne e tanti uomini, giovani e vecchi del tutto estranei ad ogni forma di violenza – a questione di ordine pubblico da delegare alle forze dell’ordine.
La contrapposizione e il conflitto possono essere superati solo da una politica intelligente, lungimirante e coraggiosa. La costruzione della linea ferroviaria (e delle opere ad essa funzionali) è una questione non solo locale e riguarda il nostro modello di sviluppo e la partecipazione democratica ai processi decisionali. Per questo è necessario riaprire quel dialogo che gli amministratori locali continuano vanamente a chiedere. Oggi è ancora possibile. Domani forse no.
Per questo rivolgiamo un invito pressante alla politica e alle autorità di governo ad avere responsabilità e coraggio. Si cominci col ricevere gli amministratori locali e con l’ascoltare le loro ragioni senza riserve mentali. Il dialogo non può essere semplice apparenza e non può trincerarsi dietro decisioni indiscutibili [per]ché, altrimenti, non è dialogo. La decisione di costruire la linea ad alta capacità è stata presa oltre vent’anni fa. In questo periodo tutto è cambiato: sul piano delle conoscenze dei danni ambientali, nella situazione economica, nelle politiche dei trasporti, nelle prospettive dello sviluppo. I lavori per il tunnel preparatorio non sono ancora iniziati, come dice la stessa società costruttrice. E non è vero che a livello sovranazionale è già tutto deciso e che l’opera è ormai inevitabile. L’Unione europea ha riaperto la questione dei fondi, dei progetti e delle priorità rispetto alle Reti transeuropee ed è impegnata in un processo legislativo che finirà solo fra un anno e mezzo. Lo stesso Accordo intergovernativo fra la Francia e l’Italia sarà ratificato solo quando sarà conosciuto l’intervento finanziario della UE, quindi fra parecchi mesi. E anche i lavori sulla tratta francese non sono iniziati né prossimi.
Dunque aprire un tavolo di confronto reale su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternative non provocherebbe alcun ritardo né alcuna marcia indietro pregiudiziale. Sarebbe, al contrario, un atto di responsabilità e di intelligenza politica. Un tavolo pubblico, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, da convocare nello spazio di un mese, è nell’interesse di tutti. Perché tutti abbiamo bisogno di capire per decidere di conseguenza, confermando o modificando la scelta effettuata in condizioni del tutto diverse da quelle attuali..
Un Governo di “tecnici” non può avere paura dello studio, dell’approfondimento, della scienza. Numerose scelte precedenti sono state accantonate (da quelle relative al ponte sullo stretto a quelle concernenti la candidatura per le Olimpiadi). Noi oggi chiediamo molto meno. Chiediamo di approfondire i problemi, di non deludere tanta parte del Paese, di dimostrare con i fatti che l’interesse pubblico viene prima di quello dei poteri forti. Lo chiediamo con forza e con urgenza, prima che la situazione precipiti ulteriormente.