A-social (parte seconda)

Ci avevo già “provato” qualche anno fa, mi pare nel 2014, e dopo quattro anni ci riprovo: nel pomeriggio di ieri ho chiuso il mio account su Facebook. L’eliminazione sarà definitiva il prossimo 7 ottobre. Questa volta ho chiuso anche il mio account su Twitter (mai usato in 10 anni) e quello su Instagram (non faccio selfie, non ho una reflex digitale, non sono un food-blogger, non ho niente di “visivo” da raccontare).
A 34 anni ho deciso che i social mi hanno leggermente stancato, e ho deciso di ritornare dal mio vecchio, trascurato, sedotto e abbandonato primo amore: il blog.
Se proprio vogliamo dirla tutta, non sono mai stato troppo prolifico nella produzione di post. In 10 anni questo blog di rado ha ospitato i miei pensieri. E più passa il tempo, più mi accorgo di essere uno che non ha mai avuto molto da dire, e che probabilmente non ha proprio quasi niente da dire.
Penso che la mia “svolta a-social” rifletta una mia vaga propensione al nichilismo, all’oblio. Oggi penso che il rimanere nel social-network sia sostanzialmente inutile per almeno due motivi: perché non si è veramente “presenti” nel social-network, ma si lasciano tracce artefatte di sé; e perché se non si è “attivi” (cioè se non si “producono” in continuazione tracce di sé), non ha senso starci, a meno di non volere o avere bisogno di “consumare” passivamente le tracce degli altri.
Alcuni mi hanno consigliato di non chiudere il profilo, ma semplicemente di usarlo di meno. Togliere l’app dallo smartphone, decidere di consultare la bacheca solo in certi orari, limitare la fruizione, gli accessi. Controllarsi. Non so. Intanto perché così mi toccherebbe pensare di disciplinare qualcosa che prima facevo praticamente sovrappensiero. E poi perché penso di non essere/essere stato uno di quei casi patologici che a volte finiscono sui giornali, come quelli che stanno 10 o 15 ore al giorno a scorrere e a rovistare nella vita apparente degli altri spinti da una morbosità compulsiva mentre la loro esistenza va alla deriva. Mi sono solo accorto che anche quel poco o tanto tempo passato “nel” social non mi restituiva una qualche forma di valore, se non in scambi di opinioni nei commenti – inesorabilmente comunque viziati dal mezzo, credo anche per via del fatto di essere costantemente esposti alla terzietà e alla non-evanescenza delle parole che non passano perché “scritte”, dunque non volatili, dunque non effimere, dunque non leggere.
E così alla fine ha vinto il ragionamento “utilitaristico”.
“A che ti serve Facebook?”
“A tenere contatti, organizzare eventi.”
“Sicuro?”
“Sì, certo.”
“Sicuro sicuro?”
“No, forse in effetti potrei fare semplicemente fare qualche telefonata ogni tanto, e uscire di più.”

Quattro ruote

Ho presa un’auto, l’ho comprata da un collega. Si tratta di una utilitaria, del 2001, marchio francese, grigia, con qualche graffio. È a benzina, milledue di cilindrata, fa il suo lavoro: porta me al lavoro, e in giro i miei strumenti quando serve.
Avevo smessa la mia vecchia auto (utilitaria, del 2003, marchio italiano, blu) nell’estate del 2011. All’epoca pensavo che non mi servisse più un’auto. Pensavo fosse più giusto utilizzare i trasporti pubblici per muoversi. Per andare al lavoro. Non consideravo l’immensa perdita di tempo cui andavo incontro. Ero focalizzato sulla mia solitudine al volante. E in tangenziale guardavo dal finestrino gli altri dai loro finestrini, soli come me. E mi figuravo una massa di persone sole nelle loro sole auto che andavano a Brescia, come me. Mi sembrava uno spreco. Sragionavo di soldi risparmiati perché “l’abbonamento costa solo 80 euro al mese”.
In cinque anni ho passate 1800 ore della mia vita seduto o stipato sui mezzi pubblici, oppure in piedi a qualche fermata, al buio, al freddo, sotto il sole, sotto la pioggia, nella nebbia. A che prezzo?
Alla fine ho capito che non ne vale la pena, se puoi avere un’auto. Sì, lo stress aumenta, ma neanche tanto. In confronto, sapere di essere a solo 5 minuti in auto da un posto, ma non poterci andare direttamente perché coi mezzi ci metteresti il triplo del tempo (senza contare i minuti fino alla prossima coincidenza), e a piedi ci metteresti tre quarti d’ora, non ti fa stare più tranquillo.
Sì, i costi aumentano.
Perciò ho presa un’auto di seconda mano.
Perciò in paese tendo a muovermi comunque a piedi.
Perciò vado piano.
E comunque, se al lavoro mi chiedono di restare di più, posso farlo, senza preoccuparmi di orari di rientro. E a fine mese questo è un fatto positivo.
Mi sto affezionando alla mia nuova automobilina vecchia. Ha qualche acciacco, pazienza. Ripongo in essa speranze e possibilità, mi sento più libero.
Prendo, e vado, finché c’è tempo, finché ci sono strada e benzina.

I giorni dei ricordi sfocati

Da qualche settimana indosso dei nuovi occhiali. Lo ho voluti meno potenti dei vecchi, che ormai hanno qualche annetto, ma non perché la mia miopia sia migliorata. Ho letto infatti che il costume di prescrivere ai miopi delle lenti per correggere la vista così da permettere una buona, o ottima, visione “all’infinito” non fa che peggiorare il difetto visivo, costringendo l’occhio, quando si hanno a guardare le cose vicine, ad accomodarsi con un certo sforzo innaturale per la vista tramite la lente troppo forte. Poiché il miope ci vede benissimo da vicino, tale prescrizione sarebbe perfino riprovevole su un ragazzino in età scolare, che ha da passare molto tempo a leggere e scrivere, e quindi a vedere non oltre un metro dal proprio naso. Dunque, dopo vent’anni di accomodamenti esagerati, e un notevole calo della vista, scopro l’intero fatto delle lenti per vederci “quel tanto che basta”.
Mi porto appresso due paia di occhiali. Quando ho da fissare un libro, o il telefono, o lo schermo del PC in ufficio, inforco gli occhiali corti; quando ho da guidare o da passeggiare, invece, passo a quegli altri, per l’infinito. Tuttavia è tanto più comodo rimanere sempre con gli stessi occhiali, piuttosto che continuare a scambiarli! E così, dato che il guidare l’auto è un’attività che mi tocca solo di quando in quando, resto la maggior parte del tempo con gli occhiali corti.
Sul pullman, quando si tratta di gettare lo sguardo dal finestrino, non vedo che i suoi contorni! Il sedile di fronte a me è nitido, ma il volto dello sconosciuto a tre file di distanza è anonimo nella sua sfocatura, più che per la mancata conoscenza.
Passano le scritte mute, e le vicende oscure, mentre scorro per il mondo, ignaro.

Orange Road

Ho dovuto riscrivere questo post, perché la prima volta mi si è cancellato.
È stato abbastanza frustrante, lo ammetto, ma almeno ho potuto rielaborarlo.
Riguardava il fatto che sto vivendo giorni di attesa: senza scendere in dettagli, sto aspettando che si verifichino le condizioni che dovrebbero portare cambiamenti positivi, e non, nella mia vita. Ne parlerò sicuramente e più in dettaglio a cose fatte; per il momento mi limito a registrare questi giorni carichi di paziente tensione!
Sarà poi che è estate, che la gente appare diversa. Che molti vanno via, che c’è nell’aria una costante sensazione di preparazione e nostalgia, di posti che si andranno a vedere, o dai quali si è tornati. La pausa estiva, il chiudersi della continuità di un anno di lavoro scivolato attraverso la serenità piovosa e rassegnata dell’autunno, l’operoso inverno, la produttiva primavera.
L’estate non è tempo di bilanci, ma la rilassatezza che la caratterizza è quella di chi sa che presto ritornerà un altro ciclo di crescita. A me forse questo fa tornare alla mente i bei tempi della scuola, legati indissolubilmente alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, che in un certo senso permangono in me in certe mie peculiarità o carenze. Con questo atteggiamento di spirito sto affrontando la visione (rigorosamente al ritmo di una puntata al giorno) di un vecchio anime: Kimagure Orange Road.
La versione che sto guardando è l’ultima della Dynit, e non ha niente da spartire con il vecchio adattamento televisivo che tutti ricordano col titolo È Quasi Magia Johnny. Giusto ieri pensavo, assistendo alle tormentate vicende di Kyosuke (Johnny), che è straordinario come nella sua semplicità un cartone animato sia in grado di farmi rievocare le sensazioni dell’adolescenza.
Ma magari è solo l’estate, oppure le ansie e le aspettative di oggi hanno trovato un terreno fertile sul quale germogliare, in un frutteto di emozioni e sensazioni.