Fu la mattina di domenica scorsa, di rientro da una notte brava trascorsa nel vento del lungolago desenzanese.
Stava giusto per finire una maratona di veglia in corso da qualcosa di più di ventiquattr’ore, quando scesi da quella macchina lunga e nera. Salutai battendo vivacemente le nocche sul vetro della portiera, e me ne allontanai ciondolando, trascinando i miei passi nella zona pedonale, quindi su, e su, fin dentro la mia camera, zaino in spalla e chitarra.
Dormii un poco, giusto un paio d’ore, e non ne potevo già più.
Con un filmaccio in televisione presi ad assemblare un origami modulare.
Mi telefonarono per dirmi che gli stessi amici che avevo da poco salutato, ora si trovavano in ospedale.
“È uno scherzo, vero?”
No, erano davvero in ospedale. Quella stessa Mercedes nera che mi aveva portato fino a casa ora era ridotta ad un cumulo di rottami e lamiere deformi, vetri rotti e tubi, trasmissioni, fodere, bottiglie, carte, terra, sporco, benzina sparsa, olii, acqua, cenere. E, grazie a Dio, nessuna vita spezzata.
Giusto spavento, rabbia, delusioni.
Al guidatore, niente patente per un anno, all’altro un piede rotto. Per entrambi, tagli e botte.
Tutti quanti noi siamo stati rimproverati.
Perché, ci chiesero, stare fuori fino al giorno dopo?
Perché, stanchi e travolti, rimettersi al volante, rischiare la vita per la strada, per l’orario, per la (ir)responsabilità?
Cosa sarebbe stato peggio, in fondo? La preoccupazione, o il ritorno incolume?
Oh, ma quella notte…