Gilosk

Metti una fila di ombrelloni su una striscia di sabbia, ed otterrai i lineamenti dello sfondo su cui si svolge questa storia, la storia d’un prodigio estivo. Metti anche tutti i possibili stereotipi che ti possono venire in mente pensando alle parole “estate” e “spiaggia”, perché è lì che tutto si svolge. Non importa il colore del mare, o il taglio degli occhi della gente. Non importa la lingua che parlano tutti, non importa nemmeno di che colore sono i secchielli, le palette, i ghiaccioli, le sdraio e gli asciugamani. Potrebbero esserci tre ragazzi e una palla, su quel bagnasciuga; potrebbero esserci invece due vecchie sedute sugli scogli, le gambe e le caviglie a penzoloni nella spuma salina del mare. Scegli tu, inventa. In fondo, ogni storia è un pezzetto di fantasia.
E mentre tu ti concentri sui dettagli, lascia che ti presenti Marco e Lucrezia. Marco è quel ragazzo laggiù. Lo vedi? Non è molto abbronzato. Voleva andare in montagna, pensa! Lucrezia non è nemmeno la sua ragazza. Sta nel lotto successivo, in verità, ma il lotto successivo non è nemmeno poi così distante. Adesso ci starebbe bene qualche immagine di gabbiano, no? Per prenderla un po’ larga. Bisogna respirarla ogni tanto, una storia.

“Un …che?!”

Ecco, questo è Marco. L’intonazione della voce è quella che potreste immaginare dai tre puntini di sospensione; l’avrete certamente già sentita in dozzine di film. Sta sull’incredulo, più che sul sorpreso. È l’interro-esclamazione che Marco ha rivolto a Luca, detto il Borro (ma questo è un particolare irrilevante, naturalmente), sentendosi raccontare di qualcuno al quale qualcun’altro “si è avvicinato e gli ha gettato in faccia un gilosk”.

Sì, anche voi immagino vi starete chiedendo che cosa sia. E soprattutto chi sia il Borro, e di chi stesse parlando. Perdonatemi, avrei dovuto cominciare a raccontarvi questa storia con più ordine, partendo da un punto più remoto; il fatto è che siete capitati in questo continuum troppo tardi. Ora mi tocca ricorrere ad una digressione ed ad un’analessi.

Un gilosk è un manufatto appartenente al retaggio culturale di certe tribù nomadi che migravano fra il Medio Oriente e i Balcani circa tremila anni fa. Non ci sono giunte, al riguardo, molte notizie, e, a tutt’oggi, gli storici hanno proposto le più svariate ipotesi circa le origini e la presunta scomparsa di questo misterioso popolo. Le Genti del Giglio (così è conosciuta questa etnia oggigiorno) pare venerassero, fra gli altri dei minori, un dio chiamato Zil-Jak. Il culto di Zil-Jak si manifestava in riti propiziatori quali balli e canti dalle strutture complesse, con l’auspicio di ottenere buona sorte nei loro spostamenti. La mitologia e l’insieme della memoria sui riti veniva mantenuta intatta grazie ad una forte tradizione orale; i sacerdoti, o stregoni, erano soliti praticare la poligamia al fine di garantirsi una discendenza numerosa, e quindi una più alta possibilità di diffondere la propria scienza. Giunti ad un’età in cui venivano considerati autosufficienti, i discendenti del clero erano soliti abbandonare i propri genitori per fondare un nuovo piccolo insediamento; al momento della loro partenza veniva celebrata una breve funzione religiosa al fine di garantire la benedizione di Zil-Jak al giovane. In tale funzione, il giovane riceveva un gilosk come segno tangibile della vicinanza del grande Zil-Jak.

Un esemplare di questi manufatti trovò la sua strada attraverso i secoli e le mani di gente di molte diverse culture per arrivare nella vicenda che abbiamo lasciato in sospeso qualche paragrafo fa. Il Borro stava appunto raccontando a Marco della curiosa vicenda di un suo antenato divenuto cieco a causa di un’infezione quando era bambino, e di come riacquistò la vista in seguito all’incontro con un gitano. “Mio nonno da bambino mi raccontava sempre la storia del suo prozio Tunì, che riaprì gli occhi a vent’anni, come diceva lui. Accadde in una notte d’estate di chissà quanti anni fa, ad una di quelle fiera di zingari. Zio Tunì era preso male perché sapeva che i suoi amici potevano stare con delle ragazze, mentre lui non aveva nessuno. E niente, insomma una specie di santone gli si è avvicinato e gli ha gettato in faccia un gilosk”.
“Un …che?!”
“Un gilosk! Mi ha sempre detto così, non so che sia di preciso. Dev’essere una specie di amuleto – il nonno mi diceva di averlo visto una volta da piccolo, è una specie di sasso con su inciso quacosa”.
“Va bene. E poi? Tunì aprì gli occhi?”

Sì, lo Zio Tunì riaprì gli occhi, ma non vide mai lo zingaro che gli ridiede la vista. Si guardò intorno, meravigliandosi di poter rivedere la notte, le stelle, il fuoco del falò, e le proprie mani. Per terra, poco lontano da lui, giaceva inerte quello strano sasso levigato ed intagliato. Vi si avvicinò, si abbassò e quando allungò la mano per prenderlo, vide un’altra mano, più bella della sua, tendersi per afferrare la stessa cosa. Alzò lo sguardo, e fu contento nel constatare che una delle prime cose che vedeva ora che aveva riaperto gli occhi sul mondo era un volto che poteva benissimo essere quello di un angelo.

“Crèz…! Oh, CRÈZ!”
Lucrezia si guardò intorno un secondo, prima di riuscire a scorgere Francesca, che la stava appunto chiamando.
“Vieni a fare il bagno?”
Era troppo stanca per alzarsi, stava tirando dritto da ieri, e trovava già abbastanza incredibile trovarsi nel casino della spiaggia. Alzò la mano agitandola come per dire “vai, vai”, si girò e riprese a sonnecchiare. Quando riaprì gli occhi, qualche minuto dopo, era perché aveva la sensazione che qualcuno la stesse avvicinando: e infatti era la sua amica che le si gettava addosso ancora tutta fradicia. “Scema!”, gridò, cercando di mollarle una sberla, ma essendo stata colta di sorpresa non ottenne altro che di perdere l’equilibrio e di cadere sulla sabbia.
“Ahi! Scotta!”
Afferrò la mano del Borro, che l’aiutava ad alzarsi. “Ciao! Prendi sempre il sole così?”
“Grazie… no, è quella scema della mia amica”.
Francesca si avvicinò “…con un volo così, la scema sono io, chiaro…”
“Lei è Francesca.”
“Piacere, Luca. Questo qui è Marco. Come ti chiami?”
“Crèz!” intervenne Francesca.
“…Lucrezia”, chiarì lei, squadrandola.
“Beh…”, fece Luca, “vi va se prendiamo qualcosa al bar?”
Non ci fu possibilità di opporsi, Francesca aveva già preso sotto braccio il Borro, e se lo stava già praticamente trascinando al bancone. Ma perché doveva sempre far così?
Trovò invece molto simpatici sia Luca che Marco, per quanto quest’ultimo fosse un po’ più chiuso del primo. Presto Francesca e Luca cominciarono a dare l’impressione di conoscersi da una vita, e lui la invitò a giocare a biliardino.
“Vedete di non fare cose troppo strane, voi due!” disse lei, andandosene.
“Scema!”
Marco non riusciva a guardarla negli occhi, era un po’ bloccato, non si aspettava di rimanere solo con lei, una ragazza che non conosceva affatto. Non sapeva bene che cosa fare, non era tanto sicuro che in effetti dovessero stare seduti allo stesso tavolino. La situazione stava diventando un po’ imbarazzante. Decise di rompere un po’ il ghiaccio.
“Lucrezia… Certo che Lucrezia non è un nome molto comune…!”
“Non deve mica piacere a te”.
“No, no, infatti…”
Marco tornò a guardare la televisione. Pensava che forse era meglio se se ne fosse stato zitto.
“Scusa, è che sono un po’ stanca”. Rialzò lo sguardo, sorrise. “No, figurati…”
“Lucrezia era la nonna di mia mamma. Lei la adorava, sai? Dice che aveva dei poteri magici”.
“Davvero?”
Lei sorrise. “Beh, non so se sia vero… ma mia mamma ci ha sempre creduto, e così ha convinto mio padre a darmi il suo nome”.
“Curioso…”
“Che cosa?”
“Oggi è la seconda volta che sento parlare di magie, di miracoli…”
Risero. Marco pensò che il ghiaccio si fosse ormai rotto.
“Guarda”, esordì lei, “vedi questo?”
Lucrezia sollevò il ciondolo che portava al collo. “Era della mia bisnonna, gliel’ha regalato un ragazzo che aveva conosciuto quando era giovane. Questa pietra è una specie di amuleto, insomma, un portafortuna! Per mia mamma è grazie a questo che sono successe molte cose buone nella mia famiglia, nel corso degli anni”.
“Ah, io non ci credo in queste cose…”, fece Marco.
“Nemmeno io, però sarebbe bello se fosse vero. Magari questo coso mi farà incontrare la persona giusta!”
“Eh, eh! Magari”.

Lucrezia stava guardando gli occhi di questo bellissimo ragazzo. Erano come gli occhi di un bambino meravigliato, e fu sconvolta dalla semplicità che riuscivano a trasmettere. Tunì, d’altro canto, non aveva mai visto ragazza più bella in vita sua.
“Allora… questa pietra? L’ho vista prima io!”
Tunì ebbe l’impulso di abbracciarla, e lo fece. Pianse.
“Ero cieco! Ero cieco!”
Sciolse l’abbraccio, e la guardò.
“Qualcuno me l’ha lanciata sugli occhi ed ora ci vedo di nuovo… è un miracolo!”
“Forse ha voluto farci incontrare”.
Si guardarono, sorrisero. Le loro mani ancora strette sulla stessa pietra. Tunì chiuse la sua altra mano sulle loro, e lei lasciò la presa. Lui prese a cercare dei legnetti, e fabbricò una corda con la quale fece della pietra un ciondolo, che poi le legò al collo. Da così vicino poteva quasi contare i suoi capelli uno ad uno, osservare quanto la sua pelle fosse liscia, perdersi nelle pieghe del suo piccolo orecchio, ammirare con quanta perfezione la linea del mento finiva per delineare la sua mandibola. Erano così vicini da non capire se fosse il tepore dei loro corpi più caldo della fiamma del falò, erano così vicini da percepire il ritmo dei loro respiri.
Non si accorsero nemmeno dei primi fiocchi. Tunì e Lucrezia furono una sola pelle, quella notte d’agosto, mentre tutt’attorno cominciava a cadere la neve. Una neve candida e lenta, confusa nel baluginare della cenere del grande falò della festa, le cui braci languivano consumate all’alba di un legame fatto per durare in eterno, comunque, al di là delle decisioni del destino, oltre le barriere della vita e della morte.

Tunì e Lucrezia.
Lucrezia e Marco.

Eccoli seduti al tavolo di un bar, metti il solito bar della vacanza, nella più stereotipata delle spiagge. Metti gli ombrelloni e le sdraio, il cielo azzurro e i gruppi di ragazzi. Metti anche gli ambulanti, i coccobbello, i bibitari. E metti qualcosa di straordinario in tutto questo. Come quest’attimo in cui Lucrezia si gira un secondo per guardare fuori, lo sguardo gettato distrattamente sulla solita selva di vacanzieri al mare, per finire di vedere il primo fiocco di una nevicata cadere inspiegabilmente nel giorno più incredibile della sua vita.

Incendio

Nessuno. Beh, no, nessuno no, dai. C’era sempre lei, appoggiata a quella macchina, la sigaretta accesa. Cravatta slegata, ti avvicini sorridendo ad un sorriso distratto. Gente concitata ovunque, i segni dell’incendio divampato improvvisamente in uno sgabuzzino si vedono ancora. Non conoscersi ad una festa, ed incontrarsi fra gli sfollati. Interessante.
Ti sei avvicinato. Non hai un Martini, e nemmeno lei. E ci scherzi su, che altro vuoi voler fare?
Poi avete voluto aver superato il cordone di sicurezza, da dentro per fuori; “le macchine le recupereremo dopo”, dici. E vi spingete con i vostri stupendi abiti nel centro della cittadina sul mare. Non capisci come mai tutto sembri essere stato spostato in Spagna, da un momento con un altro. E non sai che ore sono. Il tempo è stato preso per essere scosso violentemente, così da fargli assumere altri aspetti, sapori, caratteristiche.

“Peter”
“Fiona”

No, meglio.

“Ron”
“Lizzie”

Insomma, è lei che inizia a parlare, per prima. Tu l’ascolti, e la guardi pure. Dentro gli occhi, e fra la bocca ed il naso. Quando tocca a te continuano a passare macchine, urti gente, c’è chiasso. Lei non capisce mai, ma ride, e ride, e ride.
Le case sono contornate a china, a ridosso della piazza. Saltimbanchi e mangiatori di fuoco, lo spettacolo risuona di monete, tamburi, sopracciglia alzate e sguardi fissi di bambini, di numero in numero, fino alla danza delle sciabole.
Vi erano due duellanti, un uomo e una donna, ma il numero era a tre con la luna. Le figure muovevano scie di riflessi filanti, freddi d’argento e caldi di forgiatura, in una danza di incanti, tracciata nell’aria e nella gente.
Ed ora sapete esattamente che ora è, che tempo è; e tornate fra gli invitati della festa rovinata, fra le macchine, le cancellate e le fontane, senza badare ai vostri rispettivi nomi. È stato bello così.

Nei giorni del santo in pezzi

Non mi faccio la barba da un paio di settimane, credo. Fa schifo, la mia non è una bella barba; giusto qualche spelacchio qua e là. I miei capelli ricrescono. Sono ancora abbastanza corti da promettere di essere meno ricci. È ancora troppo presto, comunque.

Ci siamo visti in una serata con una falce di luna in eclissi.

Pausa estiva dal lavoro.

Sento qualche ragazza, ogni tanto. Lancio bidoni, chiacchiero. Chi va, chi viene.

Ho riordinato ancora un po’ il garage, accatastando del legname nella zona doccia; ne ho rimosso lo scambiatore, così non si rischia di aprire il rubinetto inavvertitamente e di fare un macello ogni volta. Ho riaggiustato la serratura, il cilindretto continua a saltare mezzo giro di chiave: secondo me è mia madre che sforza. Le ho spiegato bene come si fa.

C’è stato un sacco di vento, qualche lampo notturno, un po’ di tempesta.

Messaggini, telefonate varie, conversazioni su MSN.

Richieste di amicizia fatte, ricevute, accettate, rifiutate.

Ho chiesto ad amici che partono di mandarmi cartoline dal mare, dalla montagna, da ovunque.

La libreria in camera di mia madre ha ceduto, sparpagliando libri, CD, soprammobili, polvere; una statuina di San Giuseppe è andata in pezzi.

Un tranquillo week-end di paura: sabato

Play.

Appuntamento nel parcheggio di un certo locale a mezzanotte! E così non è più sabato, in pratica, e comincia quello che poi potrebbe essere ricordato come “un tranquillo week-end di paura”; non ha importanza adesso, comunque.

Zaino e chitarra. Poco prima mi muovevo portando a tracolla l’uno e a mano l’altra lungo una notturna Via De Gasperi, in Carpen City. L’ex “Bar Gas” che ha riaperto i battenti per l’ennesima volta è la cornice della mia camminata spettacolare fra passanti, bambini curiosi (“cos’è?”) e fari di macchine. In qualche minuto giungo al “Jazz”, stasera nella sua ultima sera… almeno fino a settembre. Sono solo, è prestissimo. Di lì a poco arriveranno gli altri, e poi finalmente la rivedrò.
La rivedremo tutti, voglio dire.

Scorrimento veloce.

Siamo nel parcheggio di un certo locale. L’ora in realtà è un po’ oltre la pattuita mezzanotte, e ancora deve arrivare gente: si fa ghetto.

Scorrimento veloce.

E quante macchine, qui sul lago! Io e il mio amico ci divertiamo a scambiare le lettere delle scritte che vediamo qui e là. Le insegne si trasformano, i cartelli diventano ridicoli, e suonano come “aterpo giutti i torni”, o “una cazzina di taffè”.
Facciamo un po’ di mish-mash, perché al posto dove volevamo andare… beh, non ci si può più andare.

Scorrimento veloce.

Dio, che vento. Ho freddo, davvero. Ma è come se fossi acceso dentro, e questo contrasto mi piace tantissimo. I palmi delle mie mani sono caldi, eppure ho la pelle d’oca! Il lago mi sembra un mare increspato, è un po’ che non lo vedevo. Mi ci tufferei. Sistemiamo i viveri, gli asciugamani. Non conosco tutti, ma non importa. Si fa serata, ci si fa compagnia lo stesso. La chitarra suona praticamente da sola, non passa un minuto senza che si rida, senza che si canti, senza che si parli. Mi lancio (no, ma dai!) nell’imitazione del bluesman, mi sento l’istrionico protagonista di “One For The Road”. Alterno la festa alla solitudine contemplativa. Mi estraneo, anche e soprattutto da lei.
Non mi accorgo subito, del resto, che lei non è più sola. E che non è con me.

Lei e lui, lui e lei.

Mi scopro ad osservarli, ma bevo e canto, o guardo il buio.
Va tutto bene; in fondo sono illuminato dalla candela, in fondo sono riscaldato da questo sacco a pelo, in fondo sono abbracciato da questa notte, da questo vento, da questi suoni.
Immergo i piedi nell’acqua, sulla sabbia, sui sassolini. Chiudo gli occhi verso est, ascolto la risacca.

Sto.

Scorrimento veloce.

Sta per albeggiare. Chi diavolo ha messo su i Beach Boys? Mai una volta che mi capiti di sentire due volte la stessa canzone, di festa in festa. Ma li senti subito che sono loro, e chissà perché è più o meno sempre il momento adatto. Sta per albeggiare.

Scorrimento veloce.

Il cielo è grigio con una ferita rossa, là dove dovrebbe esserci il sole. Ci sono scogli, c’è l’acqua. Il vento non aiuta a muovere con fermezza i piedi in un Cammino che sia retto. C’è una potentissima simbologia in tutto questo, ci sono dei segnali, delle metafore. Non le colgo adesso, mi limito a guardare il cielo, ad andare nella direzione di chi mi chiama. Si deve tornare.

Stop.

Un tranquillo week-end di paura: domenica bestiale (seconda)

Non le senti poi così tanto circa trenta ore di veglia (quasi) ininterrotta, quando sei nella stanza d’ospedale di un tuo amico che sta anche peggio di te.

Sono le tre del pomeriggio dopo la tragedia evitata quella stessa mattina; e non riesco ancora a rendermene conto.

Lui se ne sta lì a guardarmi debole, malamente avvolto in una casacchina impermeabile di plastica verde semi-trasparente, ed è ancora sporco dall’incidente; ma il lettino su cui è steso seminudo è certamente lavato con Napisan (“è un presidio medico-chirurgico”).

Arrivare alla sua stanza è stato un inferno di scale e di stralci di sofferenza e solitudine. Ricordo l’occhio fisso di una ragazza sdraiata sotto il lenzuolo guardarmi passare oltre, nel corridoio; o frammenti di gesti resi lenti dall’età di qualche anziano paziente solo, sdraiato o seduto sul letto d’una stanza vuota. Un signore triste affacciato alla finestra aperta guarda questa giornata dal sapore metallico, una giornata in grado di mischiare sole e pioggia, l’ordinario e lo straordinario.

L’aspetto più incredibile dell’ospedale è il tempo: scandito e regolare trattandosi di orari per le visite, le ronde degli infermieri, degli inservienti, le visite dei medici; fermo, incerto e appena tracciato in un indistinto bianco-probabile quando sei il paziente, e aspetti. Aspetti di sapere qualcosa, e galleggi nel chiacchiericcio degli altri. I tuoi sensi ottusi dal dolore, dalla noia, non ti fanno render conto della durata di un giorno. Accogli gli eventi in maniera slegata e sequenziale, come se la pausa fra uno e l’altro non conti assolutamente nulla; come in verità è. Eppure fuori di lì cerchi di incastrare qualunque cosa nei ritagli del solo tempo che ti rimane per te, quando non stai parlando con gli altri, quando non stai lavorando, o studiando, o dormendo. O guidando.

Lasciamo il nostro amico ai suoi parenti, ad altri amici. Rivediamo visi, commentiamo, andiamo a vedere l’altro amico, quello con il piede rotto, che ora si trova in un altro ospedale. Siamo i tre che sanno, siamo i preferiti, gli scampati, i responsabili, quelli del “ma se invece di…”, quelli fra loro due e tutti gli altri. Siamo gli ingranaggi di trasmissione, e giriamo a velocità diverse per assecondare e mettere in comunicazione due mondi distinti, uno dei quali più lento.

Ci dividiamo, e rimaniamo in due. Di noi tre, uno torna alla vita normale, vera. Consueta. Con la ragazza, e lo spaziotempo là fuori, e le cose da fare che vi appartengono. Noi due si resta in stand-by, on the road. Chilometri per fare litri di benzina, e procedere da non-luogo, ad ennesimo non-luogo: un fast-food. Io sono sempre più stravolto. Mi ingozzo, rido e faccio battute. Chiacchiero.
Dopo un po’ siamo pronti, da fuori il tempo è giunto per richiamarci a partire, a tornare. Non percorriamo mai veramente delle strade, da un certo punto in poi: siamo vincolati dal ritorno, siamo legati a dei posti, a delle relazioni meno “di carne”, e più “d’obbligo”.

L’aria di casa ci accoglie, nella nostra birreria preferita. Torniamo da nessun-posto, e raccontiamo a tutti quello che abbiamo visto. Le conversazioni si legano, si ramificano. Le nostre esperienze diventano resoconti, il vissuto condiviso è memoria condivisa, e nel passaggio si modifica, filtrata dalle vicende di chi ascolta.

Passa altro tempo, giunge quello del sonno.

Saluto tutti, e me ne vo’.