Seravòlta

Fu in una serata d’estate, per caso, mentre rincasavo, che mi ritrovai in un tramonto magnifico: una temperatura decente, un leggero vento che, più forte, durante la giornata aveva spazzato via le nuvole, e che ora mi regalava carezze ed un cielo terso, azzurro verso est e arancio brillante a ponente. I pini marittimi, gli ippocastani, i cipressi; i pali della luce, la collina, le antenne, gli uccellini; il profilo di qualche casa: tutto dava l’aria di essere l’appropriato decoro dell’orizzonte. Le frastagliate forme della varia siluette urbana incorniciavano perfettamente il rilassante rossore del crepuscolo, impreziosito, inoltre, da una timida falce lunare.

D’estate ci si scopre, e ci si riscopre; per le vie del mio paese pre-serale camminavo tranquillo, imbattendomi spesso in qualche conoscente a passeggio come me, o in gruppi di donne sedute a chiacchierare. Ragazzini ancora immersi nelle loro avventure, lenti vecchi con lo sguardo rivolto finalmente di nuovo verso l’alto, liberi dal giogo d’un sole ormai troppo più forte di loro. Quella ragazza in bicicletta, i soliti avventori dei barettini in piazza; tutto un lato della via principale occupato dalle macchine parcheggiate, forme scure e scintillanti che curiosamente mi ricordarono l’acqua increspata di un fiume ideale.

Così, al flusso delle immagini presto s’accompagnò il decorso dei pensieri; e mi chiedevo se qualcun altro era fermo ad ammirare lo stesso spettacolo. Se qualcuno, in macchina, tornando o partendo, stesse gettando lo sguardo sulla campagna, o sulla cittadina, o anche solo nella via.

Mi chiedevo anche quanti, invece, erano preoccupati di far altro; al chiuso di pareti domestiche o d’ufficio; occupati in una faccenda, occupati in una telefonata, occupati nel lavoro; in un colloquio, in una ripetizione; nell’abitacolo di un camion, in uno sgabuzzino; al volante di un taxi, ai comandi di un aeroplano, di servizio in sala operatoria; appostati prima di un’irruzione, in silenzio in una stanza, in attesa prima della sala parto; in cinque disperati, in due a pregare, da soli a morire; di spalle, ciechi, con gli occhiali da sole; a sviluppare foto, magari di tramonti.

“Salve”.
“Ciao”, mi rispose.

Tornai al ritmo dei miei passi, in un tramonto di luce ormai languida. I fari di qualche macchina, una famiglia in bicicletta, e un uomo coi suoi gatti seduto nel suo giardino.
Mi fermai, guardando a sinistra e poi a destra prima di attraversare; non arrivava nessuno. Nell’aria si poteva sentire l’odore della strada ancora tiepida, e l’olezzo dei fiori e del verde del mio quartiere. Mi voltai, giunto sotto casa, ancora una volta a guardare lo spettacolo della vita imperterrita avvolta nella luce livida di sera che ancora si spandeva, debole come una sfumatura, da ovest.

Questo nefasto venerdì diciassette

Quando ho commesso il più grande errore della mia vita (quello di lasciare la ragazza che mi amava nonostante tutto), ho cominciato a chiudermi in me stesso.
Una volta raggiunto un certo grado di distacco, ho tentato di tornare da lei – ma lei non c’era già più.
Ma continuavo a dirmi: “tornerà”.
Non tornò, e ormai sono passati quasi due anni.

Con mio grande disappunto, solo stasera sto realizzando di aver buttato nel cesso due anni della mia vita.

Quando ci lasciammo, io poi lasciai tutto il resto: gli amici, la cura di me stesso, lo studio, la musica a cui tenevo, il lavoro, pretendendo però sempre le stesse cose, e fingendo sempre e comunque che le cose andassero sempre bene. O almeno normalmente.

Mi sedevo alla finestra della mia torre d’avorio, e ricevevo gli altri come ospiti ai quali non mi sarei mai sognato di mischiarmi: le ragazze a cui ho chiesto di uscire mi hanno sempre rifiutato, Francesca non voleva saperne di me, gli amici certe volte non mi telefonavano più. Uno strano, triste, silenzio compulsivo ha cominciato a riempirmi le giornate. Tutte uguali, più o meno.

Ripenso a lei, quasi ogni giorno. Quando ci penso, se mi va bene il pensiero è fugace, e scivola via. Altre volte, come oggi, sento che mi manca al punto che vorrei strozzarmi per quello che ho fatto; che, se fosse solo per quello, poco male. Il fatto è che semplicemente non ho più fatto nulla, e sono stato spesso patetico, stronzo, meschino, falso, brutto, triste.

Non cerco di farmi compatire: sto sempre a dire che il blog è un mezzo con cui mi esprimo, e, davvero, se lo rileggo non riesco a trovare molte tracce di Tamer, fra tutte quelle parole.

Io amavo stare in compagnia, amavo stringere Francesca in un abbraccio, sentirne il respiro. Amavo anche solo camminarle a fianco. Amavo Dio, amavo la gente, amavo stare fra le persone. Guardavo i bambini, e sapevo che potevo farli sorridere.
E adesso che sono passati giusto due anni, che cosa posso dire, di me?

Niente.

Non ho niente da dire.
Penso che sia la più bassa concezione di me che ho mai avuto.

Questa volta è andata così

La prossima andrà meglio. Senz’altro.
È tardi, la mia pausa pranzo finirà tra pochi minuti; poi dovrò rivestirmi, finire il caffè, sciacquarmi la bocca, i denti. Inforcare la bici, andare al lavoro: le ultime quattro ore per oggi.
Senza fiato: cena, due lavoretti al PC da sistemare, caricare la macchina, andare alle prove.

Oggi ho mangiato verdure grigliate e il mio pane, olio e sale come condimento.
Ho fatto il solito caffè doppio, leggero.
Volevo sentire un po’ di certa musica, invece sto sentendo l’EP dei Detektivbyrån.
Ieri volevo fare anche io il bagno, sabato avrei voluto uscire, avrei voluto che non piovesse. Venerdì… la frustrazione del venerdì non me la ricordo. Meglio.

Ma questa settimana andrà meglio. Forse pioverà di giorno, ma non importa.

Sì, questa settimana andrà meglio.
Repetita juvant.

Campionario di banalità

Anzitutto eravamo partiti col piede sbagliato, cercando di fare il passo più lungo della gamba. Scivolammo così sulla proverbiale buccia di banana, cavalcando a spada tratta lungo l’argine della nostra incoscienza. Sedemmo sugli allori per mesi, e fu nel nostro maggio che raccogliemmo i frutti lasciati maturare al sole. La giostra dei cavalli a dondolo si fermò, e piansero i gatti sui tetti che avevano una macchia sul nasino all’insù, a guardare quella luna piena ed a rimirar le stelle.
Al di là della siepe, un deserto di macchine e i soliti maxi-sconti: i poliziotti ci mettevano le mani in faccia, donne nervose per i loro matrimoni in pezzi procedevano a zig-zag nel traffico cittadino. Dove son finiti i bei tempi andati? Quando eravamo piccoli i sapori erano più intensi, e si poteva stare sotto il sole che non ti scottavi: adesso chissà cosa c’è nel cibo confezionato. E poi l’aria è tossica e i mari sono inquinati. Le rondini se ne vanno a marzo e tornano a settembre, son qui in ufficio e non vedo l’ora che passi questo lento pomeriggio immobile.
Mi distrae il titolone delle testate giornalistiche: in questi spazi soffocanti non mi resta che impilare cassette della frutta e vivere vendendo matite e dormendo in scatole di cartone. Ho così tante sfumature che non mi resta che disegnare, tratteggio forme su fogli di carta buoni solo per incartarci il pesce. L’ospite mi diventa scomodo e ingombrante, ultimi scampoli di primavera in questo cielo a sprazzi. La fine dell’arcobaleno al di là dei miei sogni d’oro non è che tutto fumo e niente arrosto, sulla rotonda di un valzer dolcissimo nelle pieghe dei miei ricordi in una notte di mezz’estate.

Prosit!

Ci si deve abituare a tagliare il cibo in piccoli bocconcini grandi al massimo quanto una falange del proprio pollice: si devono infilare in bocca uno alla volta, masticandoli dapprima con gli incisivi e poi mano a mano distribuendo il bolo verso i molari, aiutandosi con la lingua. Bisogna masticare decine e decine di volte, sentendo sfumare la consistenza del cibo negli zuccheri e negli amidi rotti dall’azione enzimatica della saliva. Si deve riuscire a deglutire senza sforzi, e il prossimo boccone va fagocitato a ingestione ultimata del precedente. Le prime volte si scoprirà che il tempo del pasto si allunga notevolmente, ma che con la bocca meno piena si parla anche un po’ di più e si gusta meglio il sapore delle cose, oltre che della compagnia di un altro essere umano. Diventa comunque necessario masticare un po’ più in fretta per non attardarsi troppo a tavola: questa maggiore stimolazione mascellare produce un massaggio alle trombe di Eustachio poste nell’orecchio interno, facilitando l’espulsione del cerume. Di conseguenza, oltre a farvi sentire meglio poiché ci si facilita la digestione, insomma, masticare velocemente piccoli bocconi v’aiuta anche a sentire meglio in generale, e questo è sempre importante nell’ascoltare qualcun altro che parla, che peraltro non dovrà sforzarsi di usare un tono di voce troppo alto, riducendo così l’inquinamento acustico. Dicono anche che sia meglio iniziare il pasto con della verdura a temperatura ambiente: essa contiene sostanze che stimolano la pepsi e danno un maggiore senso di sazietà. Ovviamente, poco tempo dopo il pasto capita di sentire un leggero appetito: è una buona occasione dunque per spezzare l’attività, e gustarsi un frutto di stagione, bersi del tè, fare due passi, sgranchirsi le ossa, ossigenare i rapporti, sorridere.
Ci sono sempre dei validi motivi per essere seri, e mai abbastanza di altrettanto validi per essere sempre seriosi rispetto al quotidiano.