Post(o)

Il Vangelo di questa domenica mi invita, nuovamente, ad essere umile, mite. In questo modo si può ritrovare la saggezza di apprezzare il carattere vero delle cose, senza che tutto sia avvolto di una patina di ostentazione, di superbia. La ricerca non dev’essere più mirata al privilegio, bensì all’uso, alla fruizione, alla condivisione.
Una certa sobrietà ci permette di rimanere in grado di cogliere e vivere davvero la nostra umanità, senza che sia confusa dalle azioni e dai pensieri e dai gesti indotti da bisogni artificiali.
Non è una questione di morale, Lorenzo. Non ci si “comporta bene” perché è giusto. Il cristiano, diversamente da altre concezioni, non vede nella legge la necessità di imporsi la disciplina, la regola per salvarsi. Tanto che l’unico comandamento che viene “dettato”, in aggiornamento e rottura con l’antichità precedente è: ama. E amare significa probabilmente lasciare il posto agli altri. Lasciare che gli altri entrino in noi, ma senza obbligarli a piegarsi o a faticare per entrare in pertugi bui e piccoli. La necessità di avere una mente grande, un cuore grande, la necessità di tacere ed ascoltare, comprenderla e farla propria allora porta alla possibilità di parlare, e di lasciarsi consolare.
Non è il contrario della forza, tutto questo. Si tratta di una forza non violenta, una forza che perdura ben oltre ogni eliminazione fisica, ogni costrizione, ogni vittoria, ogni invasione, ogni atto di supremazia. La forza intesa in quest’ultima accezione non genera umani che lo siano davvero: quanto c’è di umano in corpo morto? Quanto c’è di umano nel riconoscere solo il diverso nei nostri simili?
Si deve essere umili, per non smettere di imparare.
Si deve imparare, per essere saggi.
Si deve essere radicali, per applicare la propria saggezza nei propri giudizi.
Si deve abbracciare la saggezza di chi è venuto prima di noi, apprezzandone la tradizione.
Nella staffetta umana non ci dev’essere posto per chi suppone di poter conservare un posto nella Storia. Un posto nella Storia non è un posto vicino a nessuno; è soltanto un’ipoteca sulla felicità degli altri, che alla lunga ci lascia soli ed infelici.

Sakinohaka

Voglio, devo, lasciare quel che segue alla memoria di qualcuno.

Gli Oscuri Fiori Che Voi Chiamate Sakinohaka
di Kenji Miazawa

“Abbatteteli! Abbatteteli!
Coloro che tanto hanno faticato giusto per andarsi a fare una bevuta…
Coloro che hanno tentato di imparare le cose del mondo, decidendo che si tratta solo di una brulla discarica…
Coloro che hanno eccelso solo per comandare i propri simili…
Buttateli giù tutti!
Esorcizzateli!
Ripagate il loro lavoro con il baccalà e la carne secca!
Dobbiamo forgiare l’acciaio della nuova generazione…
Dobbiamo sormontare la maestà azzurra delle montagne.
Dobbiamo ricercare il nostro potere nella galassia…”

Mamma

“Avrai i suoi occhi e saranno troppo belli.
Occhi grandi, occhi che dormono. Occhi per i miei occhi.
Occhi per occhi nuovi.”

Il tempo per andare al mare è solo un parabrezza di immagini televisive: colori su colore, aria che entra dai finestrini, e il tuo ridere sereno per forza, che è stretto nella bocca semichiusa; lo sguardo davanti, sempre davanti. Sul tuo collo un filo di perle, e la cintura di sicurezza. Il sapore momentaneo di due labbra.

Mamma. Tu sei la mia mamma.

Non ti conosco tanto da predirti; ma ti riconosco. Eri tu, ad aspettarmi fuori dalla caverna. Il tuo abbraccio è troppo grande da rinchiudere nella tua ombra; il tuo corpo è una soffice nave spaziale per viaggiare sulla rotta di un suono caldo, la cui eco rimbalza anche nel mio petto, nella mia gola.

“Ci sei tu, qui per me.”

C’è un gatto che, attento, scava il silenzio nelle pause fra un tuo respiro, e il seguente.
Tu hai lasciato entrare evanescenti pensieri di dolore e di piacere, in una melanconia di ricordi di contatto con la pelle. I tuoi occhi invisibili, per ora non giocano ad escludere la luce intrappolata in stanze vertiginosamente concentriche entro i soliti percorsi, oggi così sicuri, domani così provvisori. I tuoi occhi invisibili, per ora creano da loro lineamenti confusi nell’ombra, ai quali rivolgere parole e speranze, preghiere e indulgenza.
Ti svegli in una stanza che non potrà crescere più di così: saremo noi a farlo, al posto suo.
Io imparerò la coordinazione dei passi, la grammatica dei miei pensieri.
Tu imparerai a guardare ben dentro le tue intenzioni, a cercare il senso degli effetti.

“Ninna nanna del soffio di vento
c’è chi è triste e chi è più contento
ninna nanna la canto alla luna
chi è allegro ha un po’ più di fortuna…”

So che ci sei.
Sento la tua grande mano su di me. Sento le forme dei tuoi polpastrelli scivolare via di continuo dal lato della mia fronte. Non conto più le tue carezze. Non conto più i miei respiri; respirare non è più una novità, ormai. Apro gli occhi, ho paura che ti possano aver portata via!
E tu ti volti. Le tue guance sono pesanti, il tuo animo leggero.
Vedo scendere scintillanti lacrime di felicità per me.

So che ci sei.

Stasera non esco

Ku.
Doppia vù.
E.
Erre.
Ti.
Ipsilon.

I soliti tasti di sempre. Un po’ consumati, è vero.
Mi fanno compagnia, le mie dita ormai li conoscono come fossero le loro estensioni. Non molto lontano da qui c’è gente che mi maledice per l’ennesimo bidone. “Scusatemi. Scusatemi tanto.”
Sapete come sono fatto. Troppo orgoglioso, fatalista. Allo stesso tempo cedo alle mie usuali debolezze. Vestirsi, scendere le scale, avviare la macchina: fatiche indicibili. Mi costringo a letto. Nella mia testa si formano le immagini della serata che avrei voluto vivere. Sbaglio qualche proporzione, qualche sfumatura di colore. Ma i sorrisi ci sono, e io sono addirittura ben vestito. Brillante. La solitudine nelle mie fantasticherie non mi riguarda. Il cielo e gli spazi sembrano anche più luminosi; non restano sordi e vuoti come qui.

Chiudo gli occhi nel buio.
E ritorno a vedere i lineamenti del volto perfetto. Le mie mani scivolano dai miei fianchi alle lenzuola. Accarezzo il cotone, cerco di rievocare il ricordo della pelle sotto le mie dita. Scolpisco nell’illusione della luce i contorni di un orecchio, la perfetta china di un collo, la curvatura di zigomi; provo ad immaginarmi dentro il nodo di un abbraccio, a respirare a tempo la stessa aria segreta e condivisa con lei.

Apro gli occhi nel buio.
Non mi resta che la pesantezza sulle pieghe della mia bocca. Dalla finestra entrano i sussurri della notte, e un vento stanco che non mi toglie la fastidiosa sensazione del caldo. Voci di televisione dall’altra stanza, non c’è nessuno accanto a me, e nel mio letto ad una piazza sto veramente stretto.

Mi metto seduto.
Faccio ancora in tempo a vestirmi, a scendere le scale, ad avviare la macchina. Devo solo cominciare a farlo. Gli altri sono là, a maledirmi per non essere arrivato.
Mi viene in mente che comunque non ne ho voglia, che non credo che mi serva a qualcosa. Come una zattera ritrovo l’antico pensiero che mi spinge verso questa stanza. Dove c’è una sedia, una scrivania, un monitor, la tastiera del computer: io posso scolpire questo momento.

Ku.
Doppia vù.
E.
Erre.
Ti.
Ipsilon.

Spazi fra lettere

Prendi. Prendi un foglio. Prendi un foglio esteso. Prendi un esteso foglio di carta. Prendi la carta. Prendi un foglio di carta. La carta. La carta estesa: prendila. In foglio. Prendilo. Prendi un foglio.
Di carta.

Zitto.
Zitto. Guarda.
Guarda.
Zitto.

Guarda.

Il bianco! Bianco, bianco, bianco. Foglio. Bianco.
Bordo. Pezzi del tavolo. Bordo bianco. Il bordo non esiste. Foglio, aria. Marrone. Bianco. Foglio.
Tavolo.

Ecco. La matita. La penna. Il pennarello. I pastelli rovesciati. L’odore del pastello. Il legno. Il riflesso sull’acrilico. Il sapore della grafite. La rugosità del legno. La puntità degli scarti del temperamento della punta della matita. Il temperamento della matita. La matita. La mano. La matita.
Il foglio.
La mano.
La matita.

La mente.
Qualcosa di sublime. Subito!

“Non distingueva le ombre degli occhi dallo stagnante riverbero estivo. La costrizione dei minuti si stemperava nelle vaghe volute di un’involontà dichiarata autentica, ma di fatto resa null’altro che fumo odoroso, una sensazione talmente riempitiva degli spazi da nemmeno apparirgli chiara e distinta, o presente. Cullavasi nell’impressione di sfumature di suoni, voci e colori, altalenandosi fra memorie vivide e l’indifferente presente senza orizzonti.”

Ed arrivarono quattro gendarmi, con i pennacchi e con le armi.

Prendi. Piega. Prendi. Stringi, piega. Apri, contorci. Stralcia.
Silenzio, rumore, silenzio. Memoria.

Prendi.
Prendi un foglio.

Strappalo.