Distrazioni

Salgo sull’automobile. Le portiere sono chiuse, giro la chiave per accendere il quadro. Guardo dallo specchietto retrovisore lo spazio vuoto dietro di me. Metto in moto, innesto la retromarcia. Movimenti misurati dei piedi sui pedali mi fanno uscire lentamente dal garage aperto. Controllo ripetutamente a destra e a sinistra di non stare strisciando contro gli stipiti metallici del portone. Ecco, devo ricordarmi di aprire lo specchietto destro. Me lo dimentico sempre. Mantengo l’allineamento mentre scivolo fuori. Penso alla sequenza di attracco del film “2001: Odissea nello spazio”, con il valzer di Strauss. Sono fuori. Apro la portiera. Scendo, due passi, e chiudo le porte del garage. Mi giro per guardare i fari dell’auto, non so perché.
Risalgo. Sulla destra c’è la lunga Mercedes bianca del vicino. A sinistra la Clio grigia dell’altro vicino. Metto la prima e vado avanti un poco sterzando leggermente a sinistra. Stop. Metto la retro e faccio manovra girando attorno a Moby Dick. Poco più in là c’è anche la vecchia Fiesta di un altro vicino ancora, devo allungare la manovra. Finalmente raggiungo una zona libera, mi allineo perpendicolare.
Metto gli occhiali da sole (ultimamente sono diventato più sensibile alla luce?), metto la cintura, innesto la prima. Salgo lungo la rampa per uscire dai garage, sono sullo spiazzo davanti alle case a schiera del mio quartiere. Disegno i contorni della curva prima di fermarmi per dare la precedenza e immettermi nella strada principale. Guardo a sinistra per vedere se non arrivi qualcuno, poi guardo a destra.
Ecco. Mi sono dimenticato di aprire lo specchietto destro.

I giorni dei ricordi sfocati

Da qualche settimana indosso dei nuovi occhiali. Lo ho voluti meno potenti dei vecchi, che ormai hanno qualche annetto, ma non perché la mia miopia sia migliorata. Ho letto infatti che il costume di prescrivere ai miopi delle lenti per correggere la vista così da permettere una buona, o ottima, visione “all’infinito” non fa che peggiorare il difetto visivo, costringendo l’occhio, quando si hanno a guardare le cose vicine, ad accomodarsi con un certo sforzo innaturale per la vista tramite la lente troppo forte. Poiché il miope ci vede benissimo da vicino, tale prescrizione sarebbe perfino riprovevole su un ragazzino in età scolare, che ha da passare molto tempo a leggere e scrivere, e quindi a vedere non oltre un metro dal proprio naso. Dunque, dopo vent’anni di accomodamenti esagerati, e un notevole calo della vista, scopro l’intero fatto delle lenti per vederci “quel tanto che basta”.
Mi porto appresso due paia di occhiali. Quando ho da fissare un libro, o il telefono, o lo schermo del PC in ufficio, inforco gli occhiali corti; quando ho da guidare o da passeggiare, invece, passo a quegli altri, per l’infinito. Tuttavia è tanto più comodo rimanere sempre con gli stessi occhiali, piuttosto che continuare a scambiarli! E così, dato che il guidare l’auto è un’attività che mi tocca solo di quando in quando, resto la maggior parte del tempo con gli occhiali corti.
Sul pullman, quando si tratta di gettare lo sguardo dal finestrino, non vedo che i suoi contorni! Il sedile di fronte a me è nitido, ma il volto dello sconosciuto a tre file di distanza è anonimo nella sua sfocatura, più che per la mancata conoscenza.
Passano le scritte mute, e le vicende oscure, mentre scorro per il mondo, ignaro.

Orange Road

Ho dovuto riscrivere questo post, perché la prima volta mi si è cancellato.
È stato abbastanza frustrante, lo ammetto, ma almeno ho potuto rielaborarlo.
Riguardava il fatto che sto vivendo giorni di attesa: senza scendere in dettagli, sto aspettando che si verifichino le condizioni che dovrebbero portare cambiamenti positivi, e non, nella mia vita. Ne parlerò sicuramente e più in dettaglio a cose fatte; per il momento mi limito a registrare questi giorni carichi di paziente tensione!
Sarà poi che è estate, che la gente appare diversa. Che molti vanno via, che c’è nell’aria una costante sensazione di preparazione e nostalgia, di posti che si andranno a vedere, o dai quali si è tornati. La pausa estiva, il chiudersi della continuità di un anno di lavoro scivolato attraverso la serenità piovosa e rassegnata dell’autunno, l’operoso inverno, la produttiva primavera.
L’estate non è tempo di bilanci, ma la rilassatezza che la caratterizza è quella di chi sa che presto ritornerà un altro ciclo di crescita. A me forse questo fa tornare alla mente i bei tempi della scuola, legati indissolubilmente alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, che in un certo senso permangono in me in certe mie peculiarità o carenze. Con questo atteggiamento di spirito sto affrontando la visione (rigorosamente al ritmo di una puntata al giorno) di un vecchio anime: Kimagure Orange Road.
La versione che sto guardando è l’ultima della Dynit, e non ha niente da spartire con il vecchio adattamento televisivo che tutti ricordano col titolo È Quasi Magia Johnny. Giusto ieri pensavo, assistendo alle tormentate vicende di Kyosuke (Johnny), che è straordinario come nella sua semplicità un cartone animato sia in grado di farmi rievocare le sensazioni dell’adolescenza.
Ma magari è solo l’estate, oppure le ansie e le aspettative di oggi hanno trovato un terreno fertile sul quale germogliare, in un frutteto di emozioni e sensazioni.

Flussi e riflussi

Stamattina mi sento un po’ un idiota. Oddio, “stamattina”; oramai non manca molto a mezzogiorno. Non riesco a combinare nulla di buono, troppe cose da fare iniziate tutte assieme.

Ieri ho trascorso la serata in balia delle emozioni: stanchezza nell’immediato dopo-lavoro, frustrazione per non essere riuscito a stampare quel reticolato di triangoli per l’origami modulare che ho in mente di mettere assieme; una punta di serenità, più tardi, in casa di Carlo, piena di “famigliarità”, con la piccola Emma che saltella in giro facendo versi, e il caffè sul divano dopo cena, e Carlo che si veste, che si prepara per uscire, e le battute dei suoi, eccetera. E ancora: la voglia di tornare a casa, prepararmi per uscire nuovamente, cercando di incontrarla. Tristezza per la percepita delusione di mamma, che mi ha visto arrivare per andare via subito. Fastidio nel constatare che i miei amici non volevano saperne di star lì, e solo adesso posso capire: che te ne fai di uno che è dall’altra parte d’un vetro?

Peccato ora non poter essere più chiaro: forse in futuro potrò scrivere con più tranquillità delle cose che mi succedono. Per ora semplicemente non posso, non me la sento, forse tutto ciò fa parte del processo di recupero del mio cuore, non so. Del mio cuore, della mia Anima, della mia trasparenza, onestà; che ora ho perso, e che posso solo sentire vibrare nel buio.

Tornando alla serata: delusione, profonda delusione per i miei amici, incapaci di superare i pregiudizi, incapaci di assaporare cose nuove, in questo caso della musica particolare in radio. Fors’è che le loro aspettative si sono sedimentate sotto la loro disillusione? Eppure le idee le hanno, eppure i sogni li hanno, i progetti li sanno fare. Hanno anche imparato che il sasso cade, hanno imparato ciò che si deve dire nel momento adatto, alla persona giusta. Allungano le mani nei vuoti che hanno creato attorno a loro?

Ancora, ancora: fastidio, per la calca di gente al Tango, locale non lontano da dove sto, ma comunque troppo, molto più lontano da dove mi trovavo prima, da dove volevo continuare a stare.

“Se desiderate essere con qualcuno, forse non ci siete già?”

Eppure non ho rifiutato lo strano gioco di sguardi con la sconosciuta all’altro angolo del bancone; eppure fissavo la gente negli occhi, pur evitando i contatti, cercando in ogni caso di confondermi nei colori diversi, nelle frequenze confuse della musica, dei rumori, delle conversazioni. Sollievo, nell’andarmene da lì, dispiacere, nel rendermi conto in una frazione di secondo che i miei amici, in un momento, non sono stati che forzati compagni di viaggio, dentro una serata per lo più deludente, per loro, immagino.

Silenzioso e vincitore muovo i miei passi nel cunicolo semi-buio, nello spiazzo bagnato dalla pioggia ancora cadente, su quel marciapiede troppo alto, dentro un posto che non era mai esistito, e che ora ha tutto un suo significato. E lei è lì, vestita come prima, con i capelli raccolti come prima, con la sua pelle chiara come prima, e fuori ci sono buio, nuvole, notte, pioggia e una luna nascosta, stelle a grappoli rifugiate chissà dove, e io non riesco a percepire nulla di tutto questo. Un solo pensiero, lei, e già ho paura che sia di nuovo una mia ossessione travestita da cuore, che non sia che un capriccio camuffato da vero sentimento, che la delusione mi piomberà addosso, trascinandomi ancora più giù, lontano prima di tutto da lei, e così anche dagli altri. Solo.

Stanco, assetato, prendo una birra, mi siedo. Sono a disagio, lei è presa dai clienti, non posso disturbarla. Ho in tasca un DVD, il regalo “gratuito” che le avevo promesso in un messaggio che non so nemmeno se ha avuto il tempo di leggere. Mi siedo, la guardo per pochi millisecondi ogni tanto, per non attirare troppo la sua attenzione. Non voglio disturbarla. Quando i nostri sguardi si incontrano mi scappa qualche ammiccamento; mi sento un idiota, un idiota fra i tanti che potrebbe avere incontrato prima di me. La disillusione prima di una conoscenza più alta, vera.

Prendo un libro, esco da questo mondo. Sono disperato, poi calmo, poi incuriosito, poi in tensione, poi a disagio, poi confuso, poi spaventato, poi agitato. Finisco il libro, il locale ora è praticamente deserto; oltre a me ci sono due clienti, quel ragazzo che sospetto essere suo fratello (ma non chiedetemi perché), sua madre e lei. Ancora troppe persone. Ripongo il libro, le ultime pagine ho faticato a leggerle, ero distratto dal suo continuo muoversi nelle mie vicinanze e dal mio dissimulare.

“Hai già finito il libro?” Sì, beh, poche pagine. Come mi è sembrato? Beh, bello, mi sono spaventato, funziona. “Sei spaventato?” Non capisco molto bene, fatico a sentire quello che mi dice, oppure, boh, sono sopraffatto dal tilt emotivo. Le chiedo se si riferisse al libro che ho preso in prestito qualche giorno fa; no, parlava proprio di quello che avevo appena terminato. Sì, sì, è spaventoso. Particolare. Cioè, è …folle. Insomma, funziona. Ecco.

Scivolo via, scendo, vado in bagno.

Maledetta luce. Continua a spegnersi. Sono riflesso tre volte nello specchio ad angolo sopra il lavandino. Mi guardo, non capisco come mi possa vedere, percepire. Fade out.

Fade in. Continuo a sentirmi sempre un idiota, traggo respiri profondi, esco dai due locali del bagno, torno su.

Non c’è più nessuno, sono l’ultimo. Mi serve tempo, l’occasione giusta. Chiedo molto cortesemente un caffè, questi sono gentili, me lo fanno. Lei mette a posto volantini, riviste, le do le spalle. Bevo il caffè, ho le mani che tremano! Metto la mano in tasca, ci metto secondi dilatati per arrivare alla cassa. Sono patetico, pago “una birra e un caffè”. Terza volta? No, stavolta pago. Siamo rimasti solo in tre, nel locale. Sono passate le due. Devo dire la mia battuta. Non so se ha letto il messaggio. Non voglio provare a chiedere se l’ha fatto. Cerco di spendere meno parole possibili. Penso di andarmene, mi direziono verso di lei, più che verso la porta. Il “fratello” è diventato una comparsa.

C’è una regola dei 180° fra me e lei, ora. Estraggo il DVD dalla tasca. Lo agito in aria, chissà che faccia ho. Glielo porgo. Lei si trova per le mani questo DVD con su scritto “Disco gratis!” e dei titoli. Lì per lì sembra non capire. Sento di non avere il tempo di spiegarle la faccenda del titolo, mi sento inopportuno. Le spiego che si tratta di un DVD con sopra tre film carini. Qualche ora prima pensavo di fare un discorso più esplicativo, dirle che avevo riflettuto sulla faccenda della capacità di accettare dei regali, che in effetti per me era un concetto dimenticato, più che inedito. Potevo anche dirle che da qualche mese mi ero gettato a capofitto nei film, che ne sto scaricando a dozzine. Che questi tre in particolare rappresentano per me delle nuove linee guida per la vita, riaffermazioni di un me ancora forse in grado di piacere, ancora forse in grado di sentire, ancora autentico e colorato, e non reso grigio dalle delusioni, dalla vita insolente, dalla negazione dei propri istinti. Non la guardo mai, vedo solo questo piccolo dono e le mani, nei miei ricordi non riescono a fissarsi molto le sue espressioni, a parte forse quei suoi occhi nei quali cerco un po’ di comprensione, un appiglio, del respiro. Un volto intero non riesco a sostenerlo, devo rifugiarmi nelle forme astratte di cerchi bianchi, colorati, neri. Bulbi che catturano e conducono, di per loro non hanno una vera personalità.

Saluto tutti, do la buonanotte.
Esco, sono nel piazzale. Pioviggina?

Lei e la serata sono diventati il mio passato, ora ho il cervello vuoto, sono molto ricettivo. Inspiro ed espiro aria e spazio, luci e il cono d’ombra terrestre, che per un attimo mi appare per quello che è: la quotidiana, totale, eclisse solare alla quale nessuno sembra più voler far caso. Dal giallo sto passando al grigio verdastro, bluastro, ci sono nuvole meno nere della notte, c’è qualcosa che illumina, molto. Un bagliore come di lampo congelato, è la luna, ma ancora è un alone di luce, un batuffolo di cotone, d’argento e di platino. Mi godo questo spettacolo di vento, rumori, silenzi, gente che dorme, e frenesia ancora per qualche secondo. Poi sono al volante, la macchina messa in moto, il parcheggio, le case, i lampioni che scivolano via.

Eccola.
La luna.
Piena, chiara. Claire de Lune.
Sono certo che significa qualcosa.

E chissà come, poi, mi viene in mente che Galileo Galilei chiamava “mària” le zone d’ombra della nostra luna.

Mària d’una chiara luna.