Giornata dei Giusti 2022

Ieri a Casaloldo, un piccolo paese della provincia di Mantova, si è svolta una cerimonia: sono stati piantati due alberi nel Giardino dei Giusti.

Il Giardino dei Giusti è un luogo simbolico, non c’è in tutti i comuni. Si tratta di una recente iniziativa di respiro internazionale che prende spunto dal Giardino dei Giusti situato nello Yad Vashem a Gerusalemme, nato per commemorare i Giusti tra le nazioni, cioè coloro (non ebrei) che durante l’Olocausto hanno rischiato la loro vita per salvare quella degli ebrei perseguitati.

Il concetto viene in seguito ampliato per comprendere e commemorare le persone di tutto il mondo che

(…) in ogni tempo e in ogni luogo hanno fatto del bene salvando vite umane, o si sono battuti in favore dei diritti umani durante i genocidi, o hanno difeso la dignità della persona rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discriminazioni tra esseri umani.

Wikipedia

Ma chi è giusto è giusto in ogni occasione, non solo laddove ci sono guerre e genocidi. Nei piccoli gesti di tutti i giorni noi possiamo essere “giusti”, quando nelle scelte che facciamo proviamo a metterci nei panni dell’altro, quando proviamo a fare uno sforzo di comprensione, di apertura, di dialogo, quando aiutiamo in maniera gratuita e disinteressata, perché abbiamo capito che è qualcosa che siamo chiamati a fare.

I due alberi che sono stati piantati ieri a Casaloldo sono stati dedicati ad Albino Badinelli, che scelse di sacrificarsi per salvare almeno una ventina fra prigionieri e ostaggi di un rastrellamento di “sbandati” durante la Repubblica Sociale Italiana, venendo fucilato il 2 settembre 1944, nel genovese; e ad Agitu Ideo Gudeta, una straordinaria donna etiope che seppe costruirsi una vita con il talento, la forza di volontà, lo studio e il lavoro, ma che trovò la morte il 29 dicembre 2020 per mano di un suo stretto collaboratore in un (ennesimo) caso particolarmente efferato di femminicidio.

Quella di ieri è stata una giornata serena, lieta. Nell’arco di una giornata di sole abbiamo ritrovato, nella celebrazione di chi ha saputo di avere una coscienza e di averla intera anche nel momento decisivo della propria vita, due esempi cristallini e luminosi di esseri umani, che non hanno avuto affatto bisogno di portare morte e distruzione per sentirsi vivi, o al centro della Storia.

Sono riuscito a catturare alcuni momenti della celebrazione, che voglio condividere qui.

Distrazioni

Salgo sull’automobile. Le portiere sono chiuse, giro la chiave per accendere il quadro. Guardo dallo specchietto retrovisore lo spazio vuoto dietro di me. Metto in moto, innesto la retromarcia. Movimenti misurati dei piedi sui pedali mi fanno uscire lentamente dal garage aperto. Controllo ripetutamente a destra e a sinistra di non stare strisciando contro gli stipiti metallici del portone. Ecco, devo ricordarmi di aprire lo specchietto destro. Me lo dimentico sempre. Mantengo l’allineamento mentre scivolo fuori. Penso alla sequenza di attracco del film “2001: Odissea nello spazio”, con il valzer di Strauss. Sono fuori. Apro la portiera. Scendo, due passi, e chiudo le porte del garage. Mi giro per guardare i fari dell’auto, non so perché.
Risalgo. Sulla destra c’è la lunga Mercedes bianca del vicino. A sinistra la Clio grigia dell’altro vicino. Metto la prima e vado avanti un poco sterzando leggermente a sinistra. Stop. Metto la retro e faccio manovra girando attorno a Moby Dick. Poco più in là c’è anche la vecchia Fiesta di un altro vicino ancora, devo allungare la manovra. Finalmente raggiungo una zona libera, mi allineo perpendicolare.
Metto gli occhiali da sole (ultimamente sono diventato più sensibile alla luce?), metto la cintura, innesto la prima. Salgo lungo la rampa per uscire dai garage, sono sullo spiazzo davanti alle case a schiera del mio quartiere. Disegno i contorni della curva prima di fermarmi per dare la precedenza e immettermi nella strada principale. Guardo a sinistra per vedere se non arrivi qualcuno, poi guardo a destra.
Ecco. Mi sono dimenticato di aprire lo specchietto destro.

Quattro ruote

Ho presa un’auto, l’ho comprata da un collega. Si tratta di una utilitaria, del 2001, marchio francese, grigia, con qualche graffio. È a benzina, milledue di cilindrata, fa il suo lavoro: porta me al lavoro, e in giro i miei strumenti quando serve.
Avevo smessa la mia vecchia auto (utilitaria, del 2003, marchio italiano, blu) nell’estate del 2011. All’epoca pensavo che non mi servisse più un’auto. Pensavo fosse più giusto utilizzare i trasporti pubblici per muoversi. Per andare al lavoro. Non consideravo l’immensa perdita di tempo cui andavo incontro. Ero focalizzato sulla mia solitudine al volante. E in tangenziale guardavo dal finestrino gli altri dai loro finestrini, soli come me. E mi figuravo una massa di persone sole nelle loro sole auto che andavano a Brescia, come me. Mi sembrava uno spreco. Sragionavo di soldi risparmiati perché “l’abbonamento costa solo 80 euro al mese”.
In cinque anni ho passate 1800 ore della mia vita seduto o stipato sui mezzi pubblici, oppure in piedi a qualche fermata, al buio, al freddo, sotto il sole, sotto la pioggia, nella nebbia. A che prezzo?
Alla fine ho capito che non ne vale la pena, se puoi avere un’auto. Sì, lo stress aumenta, ma neanche tanto. In confronto, sapere di essere a solo 5 minuti in auto da un posto, ma non poterci andare direttamente perché coi mezzi ci metteresti il triplo del tempo (senza contare i minuti fino alla prossima coincidenza), e a piedi ci metteresti tre quarti d’ora, non ti fa stare più tranquillo.
Sì, i costi aumentano.
Perciò ho presa un’auto di seconda mano.
Perciò in paese tendo a muovermi comunque a piedi.
Perciò vado piano.
E comunque, se al lavoro mi chiedono di restare di più, posso farlo, senza preoccuparmi di orari di rientro. E a fine mese questo è un fatto positivo.
Mi sto affezionando alla mia nuova automobilina vecchia. Ha qualche acciacco, pazienza. Ripongo in essa speranze e possibilità, mi sento più libero.
Prendo, e vado, finché c’è tempo, finché ci sono strada e benzina.

I giorni dei ricordi sfocati

Da qualche settimana indosso dei nuovi occhiali. Lo ho voluti meno potenti dei vecchi, che ormai hanno qualche annetto, ma non perché la mia miopia sia migliorata. Ho letto infatti che il costume di prescrivere ai miopi delle lenti per correggere la vista così da permettere una buona, o ottima, visione “all’infinito” non fa che peggiorare il difetto visivo, costringendo l’occhio, quando si hanno a guardare le cose vicine, ad accomodarsi con un certo sforzo innaturale per la vista tramite la lente troppo forte. Poiché il miope ci vede benissimo da vicino, tale prescrizione sarebbe perfino riprovevole su un ragazzino in età scolare, che ha da passare molto tempo a leggere e scrivere, e quindi a vedere non oltre un metro dal proprio naso. Dunque, dopo vent’anni di accomodamenti esagerati, e un notevole calo della vista, scopro l’intero fatto delle lenti per vederci “quel tanto che basta”.
Mi porto appresso due paia di occhiali. Quando ho da fissare un libro, o il telefono, o lo schermo del PC in ufficio, inforco gli occhiali corti; quando ho da guidare o da passeggiare, invece, passo a quegli altri, per l’infinito. Tuttavia è tanto più comodo rimanere sempre con gli stessi occhiali, piuttosto che continuare a scambiarli! E così, dato che il guidare l’auto è un’attività che mi tocca solo di quando in quando, resto la maggior parte del tempo con gli occhiali corti.
Sul pullman, quando si tratta di gettare lo sguardo dal finestrino, non vedo che i suoi contorni! Il sedile di fronte a me è nitido, ma il volto dello sconosciuto a tre file di distanza è anonimo nella sua sfocatura, più che per la mancata conoscenza.
Passano le scritte mute, e le vicende oscure, mentre scorro per il mondo, ignaro.

Orange Road

Ho dovuto riscrivere questo post, perché la prima volta mi si è cancellato.
È stato abbastanza frustrante, lo ammetto, ma almeno ho potuto rielaborarlo.
Riguardava il fatto che sto vivendo giorni di attesa: senza scendere in dettagli, sto aspettando che si verifichino le condizioni che dovrebbero portare cambiamenti positivi, e non, nella mia vita. Ne parlerò sicuramente e più in dettaglio a cose fatte; per il momento mi limito a registrare questi giorni carichi di paziente tensione!
Sarà poi che è estate, che la gente appare diversa. Che molti vanno via, che c’è nell’aria una costante sensazione di preparazione e nostalgia, di posti che si andranno a vedere, o dai quali si è tornati. La pausa estiva, il chiudersi della continuità di un anno di lavoro scivolato attraverso la serenità piovosa e rassegnata dell’autunno, l’operoso inverno, la produttiva primavera.
L’estate non è tempo di bilanci, ma la rilassatezza che la caratterizza è quella di chi sa che presto ritornerà un altro ciclo di crescita. A me forse questo fa tornare alla mente i bei tempi della scuola, legati indissolubilmente alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, che in un certo senso permangono in me in certe mie peculiarità o carenze. Con questo atteggiamento di spirito sto affrontando la visione (rigorosamente al ritmo di una puntata al giorno) di un vecchio anime: Kimagure Orange Road.
La versione che sto guardando è l’ultima della Dynit, e non ha niente da spartire con il vecchio adattamento televisivo che tutti ricordano col titolo È Quasi Magia Johnny. Giusto ieri pensavo, assistendo alle tormentate vicende di Kyosuke (Johnny), che è straordinario come nella sua semplicità un cartone animato sia in grado di farmi rievocare le sensazioni dell’adolescenza.
Ma magari è solo l’estate, oppure le ansie e le aspettative di oggi hanno trovato un terreno fertile sul quale germogliare, in un frutteto di emozioni e sensazioni.