Sakinohaka

Voglio, devo, lasciare quel che segue alla memoria di qualcuno.

Gli Oscuri Fiori Che Voi Chiamate Sakinohaka
di Kenji Miazawa

“Abbatteteli! Abbatteteli!
Coloro che tanto hanno faticato giusto per andarsi a fare una bevuta…
Coloro che hanno tentato di imparare le cose del mondo, decidendo che si tratta solo di una brulla discarica…
Coloro che hanno eccelso solo per comandare i propri simili…
Buttateli giù tutti!
Esorcizzateli!
Ripagate il loro lavoro con il baccalà e la carne secca!
Dobbiamo forgiare l’acciaio della nuova generazione…
Dobbiamo sormontare la maestà azzurra delle montagne.
Dobbiamo ricercare il nostro potere nella galassia…”

Mamma

“Avrai i suoi occhi e saranno troppo belli.
Occhi grandi, occhi che dormono. Occhi per i miei occhi.
Occhi per occhi nuovi.”

Il tempo per andare al mare è solo un parabrezza di immagini televisive: colori su colore, aria che entra dai finestrini, e il tuo ridere sereno per forza, che è stretto nella bocca semichiusa; lo sguardo davanti, sempre davanti. Sul tuo collo un filo di perle, e la cintura di sicurezza. Il sapore momentaneo di due labbra.

Mamma. Tu sei la mia mamma.

Non ti conosco tanto da predirti; ma ti riconosco. Eri tu, ad aspettarmi fuori dalla caverna. Il tuo abbraccio è troppo grande da rinchiudere nella tua ombra; il tuo corpo è una soffice nave spaziale per viaggiare sulla rotta di un suono caldo, la cui eco rimbalza anche nel mio petto, nella mia gola.

“Ci sei tu, qui per me.”

C’è un gatto che, attento, scava il silenzio nelle pause fra un tuo respiro, e il seguente.
Tu hai lasciato entrare evanescenti pensieri di dolore e di piacere, in una melanconia di ricordi di contatto con la pelle. I tuoi occhi invisibili, per ora non giocano ad escludere la luce intrappolata in stanze vertiginosamente concentriche entro i soliti percorsi, oggi così sicuri, domani così provvisori. I tuoi occhi invisibili, per ora creano da loro lineamenti confusi nell’ombra, ai quali rivolgere parole e speranze, preghiere e indulgenza.
Ti svegli in una stanza che non potrà crescere più di così: saremo noi a farlo, al posto suo.
Io imparerò la coordinazione dei passi, la grammatica dei miei pensieri.
Tu imparerai a guardare ben dentro le tue intenzioni, a cercare il senso degli effetti.

“Ninna nanna del soffio di vento
c’è chi è triste e chi è più contento
ninna nanna la canto alla luna
chi è allegro ha un po’ più di fortuna…”

So che ci sei.
Sento la tua grande mano su di me. Sento le forme dei tuoi polpastrelli scivolare via di continuo dal lato della mia fronte. Non conto più le tue carezze. Non conto più i miei respiri; respirare non è più una novità, ormai. Apro gli occhi, ho paura che ti possano aver portata via!
E tu ti volti. Le tue guance sono pesanti, il tuo animo leggero.
Vedo scendere scintillanti lacrime di felicità per me.

So che ci sei.

Stasera non esco

Ku.
Doppia vù.
E.
Erre.
Ti.
Ipsilon.

I soliti tasti di sempre. Un po’ consumati, è vero.
Mi fanno compagnia, le mie dita ormai li conoscono come fossero le loro estensioni. Non molto lontano da qui c’è gente che mi maledice per l’ennesimo bidone. “Scusatemi. Scusatemi tanto.”
Sapete come sono fatto. Troppo orgoglioso, fatalista. Allo stesso tempo cedo alle mie usuali debolezze. Vestirsi, scendere le scale, avviare la macchina: fatiche indicibili. Mi costringo a letto. Nella mia testa si formano le immagini della serata che avrei voluto vivere. Sbaglio qualche proporzione, qualche sfumatura di colore. Ma i sorrisi ci sono, e io sono addirittura ben vestito. Brillante. La solitudine nelle mie fantasticherie non mi riguarda. Il cielo e gli spazi sembrano anche più luminosi; non restano sordi e vuoti come qui.

Chiudo gli occhi nel buio.
E ritorno a vedere i lineamenti del volto perfetto. Le mie mani scivolano dai miei fianchi alle lenzuola. Accarezzo il cotone, cerco di rievocare il ricordo della pelle sotto le mie dita. Scolpisco nell’illusione della luce i contorni di un orecchio, la perfetta china di un collo, la curvatura di zigomi; provo ad immaginarmi dentro il nodo di un abbraccio, a respirare a tempo la stessa aria segreta e condivisa con lei.

Apro gli occhi nel buio.
Non mi resta che la pesantezza sulle pieghe della mia bocca. Dalla finestra entrano i sussurri della notte, e un vento stanco che non mi toglie la fastidiosa sensazione del caldo. Voci di televisione dall’altra stanza, non c’è nessuno accanto a me, e nel mio letto ad una piazza sto veramente stretto.

Mi metto seduto.
Faccio ancora in tempo a vestirmi, a scendere le scale, ad avviare la macchina. Devo solo cominciare a farlo. Gli altri sono là, a maledirmi per non essere arrivato.
Mi viene in mente che comunque non ne ho voglia, che non credo che mi serva a qualcosa. Come una zattera ritrovo l’antico pensiero che mi spinge verso questa stanza. Dove c’è una sedia, una scrivania, un monitor, la tastiera del computer: io posso scolpire questo momento.

Ku.
Doppia vù.
E.
Erre.
Ti.
Ipsilon.

Spazi fra lettere

Prendi. Prendi un foglio. Prendi un foglio esteso. Prendi un esteso foglio di carta. Prendi la carta. Prendi un foglio di carta. La carta. La carta estesa: prendila. In foglio. Prendilo. Prendi un foglio.
Di carta.

Zitto.
Zitto. Guarda.
Guarda.
Zitto.

Guarda.

Il bianco! Bianco, bianco, bianco. Foglio. Bianco.
Bordo. Pezzi del tavolo. Bordo bianco. Il bordo non esiste. Foglio, aria. Marrone. Bianco. Foglio.
Tavolo.

Ecco. La matita. La penna. Il pennarello. I pastelli rovesciati. L’odore del pastello. Il legno. Il riflesso sull’acrilico. Il sapore della grafite. La rugosità del legno. La puntità degli scarti del temperamento della punta della matita. Il temperamento della matita. La matita. La mano. La matita.
Il foglio.
La mano.
La matita.

La mente.
Qualcosa di sublime. Subito!

“Non distingueva le ombre degli occhi dallo stagnante riverbero estivo. La costrizione dei minuti si stemperava nelle vaghe volute di un’involontà dichiarata autentica, ma di fatto resa null’altro che fumo odoroso, una sensazione talmente riempitiva degli spazi da nemmeno apparirgli chiara e distinta, o presente. Cullavasi nell’impressione di sfumature di suoni, voci e colori, altalenandosi fra memorie vivide e l’indifferente presente senza orizzonti.”

Ed arrivarono quattro gendarmi, con i pennacchi e con le armi.

Prendi. Piega. Prendi. Stringi, piega. Apri, contorci. Stralcia.
Silenzio, rumore, silenzio. Memoria.

Prendi.
Prendi un foglio.

Strappalo.

Grida soffocate

Mi permetto di far girare una mail che ho ricevuto grazie ad Alessandra.

Non so se sia una testimonianza autentica; ma in questa Italietta ridicola e cattiva, trovo che quello che vi sia descritto possa essere terribilmente plausibile. Perdonatemi se ho voluto correggere qualche maiuscola e qualche punteggiatura qua e là.

Ma non perdonate gli errori di miopi governanti che delle disgrazie altrui se la ridono.

LORO NON SCRIVONO, VOI FATE GIRARE

Ieri mi telefona l’impiegata di una società di recupero crediti, per conto di Sky, dicendo che risulto morosa dal mese di settembre del 2009. Mi chiede come mai. Le dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più fatto ritorno, a causa del terremoto; il decoder Sky giace schiacciato sotto il peso di una parete crollata.

Ammutolisce. Quindi si scusa e mi dice che farà presente quanto le ho detto a chi di dovere; poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un anno, è tutto a posto. Mi dice di amare la mia città, ha avuto la fortuna di visitarla un paio di anni fa, e ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la Basilica di Collemaggio. Mi sale il groppo alla gola, le dico che abitavo proprio lì. Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi. Ed io lo faccio.

Le racconto del centro militarizzato. Le racconto che non posso andare a casa mia quando voglio. Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati. Le racconto dei palazzi lasciati lì a morire, dei soldi che non ci sono per ricostruire, e che non ci sono neanche per aiutare noi a sopravvivere. Le racconto che dal primo luglio torneremo a pagare le tasse ed i contributi, anche se non lavoriamo. Che pagheremo l’I.C.I. ed i mutui sulle case distrutte, e che ripartiranno regolarmente i pagamenti dei prestiti, anche per chi non ha più nulla. Che a luglio un terremotato con uno stipendio lordo di 2.000 euro vedrà in busta paga 734 euro di retribuzione netta. E che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle non pagate dal 6 aprile. Che lo Stato non versa ai ventisettemila cittadini senza casa, che si gestiscono da soli, neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a pagare un affitto. Che i prezzi degli affitti sono triplicati senza nessun controllo. Che io pago, in un paesino di cinquecento anime, quanto Bertolaso pagava per un appartamento in via Giulia, a Roma.

La sento respirare pesantemente. Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso. Le racconto la vita delle persone che abitano lì, come in alveari senz’anima, senza neanche un giornalaio o un bar. Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra lontani chilometri e chilometri; dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole superiori in netto calo.

Le racconto di una città che muore e lei mi risponde, con la voce che le trema: “non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare così. Chiamate i giornalisti televisivi. Dovete dirglielo, chiamate la stampa. Devono scriverlo.”