Finché sei.

Zero.
Uno, due, tre.
Quattro, cinque. Sei.
Sei. Sei nei miei pensieri, adesso. Non sei molto alta. Hai i capelli neri. Hai i capelli neri, lunghi. Hai i capelli neri, lunghi, molto mossi. Non ricci. Sei magra. Ti vesti come le ragazzine di oggi. Porti quelle scarpe che andavano di moda venticinque anni fa. A volte indossi dei pantaloncini corti. A volte mi chiedo se sarei così fermo, come sedia. A volte mi siedi accanto, ma non ti guardo mai.
La tua voce mi piace. Hai una voce un po’ bassa di tono, ma quando la alzi, è forte, è squillante.
Hai delle belle labbra. A volte sono screpolate. Hai spesso una crosticina sul naso, non capisco come mai. Quando sorridi riveli una dentatura forte.
Hai dei lineamenti che non riesco a definire precisamente. Le tue palpebre sorridono sottili, certe volte assumi un’aria orientale. I tuoi zigomi sporgono, ma subito stemperano la loro prominenza in un volto ovale, ingentilito dalle mascelle che si uniscono nel tuo mento minuto. La tua testa prosegue ad essere un capolavoro di finezza per come si origina l’esile curva del collo, tratteggiato da una pennellata che continua dalle spalle decisamente di ragazza. Amo vederti imbracciare la tua chitarra. Mi immagino come sarebbe la confusione di un abbraccio, dove io mi abbasso e tu t’allunghi sulle punte dei piedi, albero e vela, scandalo e pace, sacro e profano.
Mi guardi e gentilmente mi sorridi, ti penso guardarmi e vorrei dirti cose intelligenti mentre ancora ti non offro che sarcasmo e silente distanza. Crescono i tuoi seni, si soddisfano le tue curiosità. Fai i compiti, e impari soprattutto dalla vita e dalle relazioni come sarai da donna. Ti sbircio sbirciare il tuo cellulare, mentre con gli occhi nutri il tuo cuore e la tua giovane mente con le parole abbreviate e digitali di un’amica o di una confidente, alla quale affidi speranze e segreti sfrecciando abilmente le dita, le tue lunghe dita delle tue recenti e belle mani, alla ricerca dei tasti giusti per chiudere l’SMS.
Guardo l’auto dei tuoi genitori andare via. Dadi di pelo, macchia d’argento, treno in partenza, feste di paese, tasti chiari e tasti scuri. Un’altra settimana senza. La tua crescita a puntate, il mio interesse intermittente.
Non c’è colpa se non c’è peccato.

Stretta è la foglia, larga la via.

Esco dal silenzio: da tempo infatti non scribacchiavo sul “bòlg” (come amo definirlo ogni tanto).
E lo faccio giusto in occasione della prossima chiamata alle urne, che si terrà nei giorni di domenica 12 e lunedì 13 giugno 2011. Vorrei utilizzare questo spazio per riflettere un po’ assieme sulla questione di partecipazione o meno all’espressione del proprio voto, e anche nelle ragioni del sì e del no.
Perché molte persone affermano che è necessario andare a votare?
Una ragione è che queste votazioni sono votazioni referendarie, e hanno da soddisfare un quorum.
Cosa significa?
Significa che per stabilire se la risposta popolare ai vari quesiti referendari sia da considerarsi valida o meno, devono andare a votare un certo numero (50% + 1 degli aventi diritto di voto) di persone: più di venticinque milioni di votanti.
Ci terrei a ricordare che queste votazioni (che non sono elezioni! Mentre è vero il contrario: le elezioni si fanno tramite votazioni, cioè con “azioni di voto”) sono state volute da un certo numero di cittadini che hanno firmato la proposta di quesito referendario avanzata dall’onorevole Di Pietro (e altri), e che questo numero ha, per la legge italiana, una valenza democratica. Allora, andare a votare in questo caso significa esercitare attivamente il proprio democratico diritto al voto.
In secondo luogo, queste votazioni sono costose: infatti, si è discusso in Parlamento della possibilità di accorpare le votazioni referendarie e le elezioni amministrative, chiamando così alle urne gli italiani una volta sola nello stesso giorno. Purtroppo, le forze di opposizione (i comunisti giustizialisti) non sono state sufficienti per permetterlo, il che significa che la cosiddetta “maggioranza” (i nostri governanti) si dovrebbe assumere la responsabilità quantomeno morale del fatto che ha praticamente aumentato la spesa pubblica per fare esercitare ai cittadini il loro diritto di voto. Questo dovrebbe far riflettere le persone su come sarebbe assolutamente stupido, a questo punto, una volta realizzate come stanno le cose, decidere di astenersi al voto in segno di dissenso per l’operato dei nostri politici: sarebbe come se sbeffeggiassimo noi stessi dopo aver subito un danno. Si può esprimere il proprio dissenso manifestando o, tanto meglio, operando scelte più oculate nella preferenza elettorale, cercando di scegliere, sforzandosi di avere un’opinione, non “il male minore”, ma “il meglio”. Dunque, scegliere la via dell’astensione non ci rimborserà dei soldi comunque spesi per indire il referendum; una cifra, lo dico senza fonti, che si aggira attorno ai trecento milioni di euro.
Ancora, molti esponenti del Governo, ovvero del Consiglio dei Ministri, e lo stesso Silvio Berlusconi, che del suddetto Consiglio è Presidente ricoprendo così una fra le prime massime cariche dello Stato, se non la più importante, hanno dichiarato che è nelle loro intenzioni di voto …non andare a votare. Ma come? Organizzano il referendum, e poi non vanno a votare…?
I casi sono due: o vogliono dare questo esempio negativo al popolo italiano nella speranza che quanti più cittadini arrivino a pensare che sia effettivamente inutile esercitare il proprio diritto di voto (per il quale la pressione fiscale penserà a prelevare dalle sue tasche il costo COMUNQUE), oppure ai nostri politici non interessano veramente i mezzi della nostra democrazia, che, lo ricordo, porta nel nome il suo stesso significato: “forza del popolo”.
In quest’ultimo caso sarebbe questionabile la buonafede dell’impegno politico di costoro che ci rappresentano come cittadini o che prendono decisioni che si riflettono con importanza nelle nostre vite, e ciò sarebbe assolutamente inaccettabile; altrimenti, nella prima ipotesi, la tesi è che il Governo non vuole che i cittadini esprimano un’opinione valida perché, evidentemente, esso ne ha già una a prescindere da quella popolare. La domanda che sorge spontanea è: quanto è considerabile legittimato a governare un Governo che non vuole ascoltare la pubblica opinione mentre ne amministra in maniera sorda e irresponsabile ogni aspetto tangibile, ovvero la Repubblica?
Sorvoliamo, e approfondiamo ora la natura di questo referendum. Si tratta di un “referendum abrogativo”. Cosa significa? Significa che esso pone un quesito che richiede al cittadino di scegliere se abrogare una legge, oppure no. Può apparire confusionario, ma votando “sì” si cancella una legge, votando “no” la si mantiene.
Alcuni esponenti della maggioranza, in linea con le dichiarazioni di membri del Governo citate poco fa, hanno espresso la loro opinione sul fatto che “per non far vincere il sì, ci si deve astenere dal votare”. Una simile affermazione è anti-democratica, e, a mio avviso, è indice di malafede.
Infatti, riconoscendo anzitutto di vivere in un Paese democratico, e dichiarandosi rispettosi delle opinioni degli altrui, non si può avvallare l’astensionismo solo per evitare che prevalga un’opinione differente dalla propria: sarebbe come impedire che si disputasse una partita di calcio perché non si vuole far vincere l’altra squadra; non sarebbe un comportamento sportivo, ma solo egoista.
Ciò, trasposta in politica, è l’indicazione palese di disonestà intellettuale, e di un certo malcostume, diffusissimo in Italia, che preferisce la muscolare capacità di essere furbo contro il prossimo, piuttosto che l’intelligente virtù di essere onesto e giusto con chi la può anche pensare diversamente, riconoscendo che magari ci può pure insegnare qualcosa.
Fra parentesi, è proprio questo atteggiamento che non fa sì che le cose migliorino in questo Paese, e non solo; vogliono tutti fare la parte del lupo, finendo per essere pecore prima ancora che uomini.
Ora, permettetemi di esprimere giusto qualche considerazione in merito alla scelta fra “sì” e “no”.
Ci sono quattro quesiti referendari, quattro schede:

  • scheda verde sul legittimo impedimento;
  • scheda gialla sulla misura di profitto che le aziende private ottengono avviando imprese nei servizi idrici;
  • scheda rossa in merito alla partecipazione obbligata del privato nelle public utilities;
  • scheda grigia sul nucleare in Italia.
La scheda verde intende abrogare una legge sul legittimo impedimento. Chi vota sì, impedirà di fatto che una persona che abbia l’incarico di essere Presidente del Consiglio dei Ministri o Ministro, nel caso sia imputato in processi ordinari (gli stessi cui possono comparire i normali cittadini) possa essere legittimato a non comparire proprio in virtù del fatto di ricoprire il ruolo che ricopre. Voglio ricordare che né la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, né la carica di Ministro sono cariche elettive: i cittadini non votano per eleggere direttamente queste figure, che sono invece nominate dal Presidente della Repubblica. In sintesi, quella legge che il referendum intende abrogare (la “legge Alfano costituzionale”, giornalisticamente chiamata “lodo Alfano”, ma che di fatto non è un lodo) è come se affermasse (violando l’art. 3 della Costituzione) che “la legge è uguale per tutti, tranne che per il Presidente del Consiglio e i suoi Ministri”. Questo è di per sé inaccettabile. In secondo luogo, se una persona commette dei reati per i quali poi subisce un processo, è giusto, se ha incarichi di governo, che si dimetta per dimostrare la sua innocenza, se è innocente, soprattutto per il fatto che, obiettivamente, è costretto ad anteporre il suo interesse privato nel difendersi al sereno svolgimento del suo incarico, cruciale nella gestione della cosa pubblica. E prima di essere Ministro o Presidente del Consiglio dei Ministri, si è o deputati o senatori, e quindi parlamentari, e quindi già nella facoltà di godere dell’impunità processuale della quale tutti i parlamentari godono. Che cos’è questa impunità processuale? Significa che un giudice della Magistratura ordinaria prima di indagare o processare un Parlamentare per reati ordinari, deve chiedere alla sua Camera di appartenenza l’autorizzazione a procedere. Questo dovrebbe essere sufficiente a garantire che non possano essere esercitati abusivamente poteri giudiziari con valenza politica. Esistono poi reati particolari per cui Parlamentari, Ministri e Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere giudicati esclusivamente da “tribunali speciali” nel caso in cui essi commettano illeciti nell’esercizio delle loro funzioni.
Io personalmente ritengo che la legge debba essere uguale per tutti, e che un cittadino rispettabile non possa avere la facoltà di rinviare continuamente, bloccandolo, un processo a suo carico, “rischiando” di mandarlo pure in prescrizione (come nel caso delle modalità previste nella legge Alfano che il referendum vuole abrogare), solo per il fatto di ricoprire una carica istituzionale. Quindi voterò sì per abrogare questa legge.
Le ragioni del “no”, in questo caso, possono essere soltanto due. La prima: chi vota no è in qualche modo convinto che la Magistratura eserciti in malafede i suoi poteri, oppure che non sia necessario per le massime cariche dello Stato osservare la legge come tutti gli altri; la seconda: chi vota no è convinto che, visto che organi importanti come la Corte Costituzionale (o era la Corte di Cassazione? Non ricordo) hanno già “svuotato” di contenuto la legge Alfano dichiarando non validi diversi suoi articoli, non sia necessario abrogarla definitivamente. Direi che questa ragione è stupida e pressapochista. Vogliamo fare qualcosa di completo, ogni tanto? Allora votiamo sì.
Passiamo al secondo quesito: scheda gialla sulla misura di profitti che le imprese private possono ottenere attivandosi nella gestione dei servizi idrici, proporzionalmente all’ammontare dei capitali investiti. In pratica, la legge stabilirebbe che a prescindere dai risultati ottenuti investendo capitali in un impianto idrico, l’investitore possa fissare tariffe per accedere al servizio erogato che gli consentano di recuperare gli investimenti. Probabilmente all’epoca in cui è stata promulgata tale legge (credo nel 1996, con un decreto ministeriale firmato dallo stesso Di Pietro), si dev’essere pensato che questa misura incentivasse i privati ad investire risorse per migliorare beni di pubblica utilità. Con gli anni, evidentemente si è visto come le inefficienze legati ai servizi idrici continuassero a verificarsi. Io ritengo che al giorno d’oggi il principio ispiratore di questa legge sia inadeguato per portare efficienza nel servizio idrico, e credo che, allo stato attuale delle cose, sia giusto abrogarla. I privati possono investire pur mantenendo una prospettiva di guadagno, nei pubblici servizi, purché siano in grado di farlo, e comunque non anteponendo i propri interessi alla qualità del servizio offerto. In un clima concorrenziale, le eccellenze verrebbero premiate dal mercato e dalle scelte dei consumatori/cittadini.
Terzo quesito: privatizzazione obbligatoria dei servizi di pubblica utilità.
Questa legge (in vigore, come tutte le altre leggi oggetto dei referendum) stabilisce che la partecipazione di privati nelle imprese di pubblica utilità (distribuzione dell’acqua, del gas, servizi di trasporto pubblico, servizi postali, ospedalieri, scuole…) dev’essere di maggioranza, ovvero in una misura stimata attorno al 40%. Cosa significa? Significa che dietro ai servizi pubblici, c’è una forte componente di investimenti privati. In economia, le imprese investono tenendo conto dei benefici ottenibili in termini di guadagno. Non importa che il prodotto sia assolutamente buono, o che il servizio offerto sia adeguato e soddisfacente: l’importante è che si possa vendere, che faccia mercato. La privatizzazione degli ambiti pubblici, però, non è “liberale”, perché le strutture sono troppo grandi, e gli investitori che possono permettersi di entrare in tali ambiti non sono numerosi. Abbiamo già visto come, addirittura, certi servizi pubblici abbiano rischiato di finire in mano ad investitori stranieri perché economicamente più forti di investitori italiani, anche riuniti in “cordate”. Una privatizzazione di questo tipo, “selvaggia”, è a discapito dei cittadini: non garantisce che effettivamente i servizi migliorino, ma resta certo il fatto che le tariffe, dal momento che non esiste concorrenza, sono decise dal compratore. I servizi pubblici possono funzionare correttamente in un paese civile se la mentalità dei cittadini cambia: quante volte si considera “terra di nessuno” il pubblico? Si dovrebbe tornare a prendersi cura della cosa pubblica, regolarizzando e partecipando attivamente nella gestione della stessa, rispettandone anzitutto le risorse che la costituiscono. Si possono costituire gruppi di controllo, si possono pretendere verifiche, si può offrire parte del proprio tempo come volontari. Si deve pretendere che le cose funzionino, cercando di raggiungere i responsabili, per richiamarli o destituirli, democraticamente e con buon senso, nel caso in cui ci siano ragioni obiettive che ci facciano dubitare del loro operato. L’onestà d’intenti paga sempre, e non è questione di essere moralisti o utopisti: è questione di essere persone civili, in una società civile. Votiamo sì, e non permettiamo al denaro di sostituirci nella gestione del nostro benessere.
Quarto quesito referendario, scheda grigia: il ritorno al nucleare.
Votando sì, viene di fatto abrogato tutto quel corpo di leggi che è stato reintrodotto a partire credo dal 2004, in barba alla decisione popolare del 1987 che con un referendum sancì il definitivo abbandono dell’utilizzo dell’energia derivante dalla fissione nucleare, dopo gli avvenimenti di Chernobyl nel 1986.
Sono completamente d’accordo nel non volere il ritorno di quel tipo di tecnologia (introdotta grazie agli studi di Enrico Fermi negli Anni Trenta del XX secolo). Si tratta di una tecnologia affascinante, che permette di ottenere grandissime quantità di energia. Tuttavia, come ogni attività di trasformazione, produce delle scorie, che sono pericolosissime in quanto radioattive, e che per essere stoccate in sicurezza vanno attivati degli accorgimenti che richiedono risorse di tempo e di spazio a dir poco inumane. Infatti, le scorie restano radioattive per migliaia di anni: la Storia, soprattutto quella europea, ci insegna come sia facile la belligeranza fra i popoli, e di come, nel giro di qualche secolo (una piccola frazione rispetto ai tempi di cui stavo parlando), possano prodursi trasformazioni radicali nelle civiltà che occupano quei territori, trasformazioni che possono implicare la scomparsa di una memoria locale, di una lingua, di tradizioni. Io non credo che saremmo ancora pronti per una tecnologia che ha bisogno di pace assoluta per non essere completamente distruttiva… e la mia non è una visione catastrofista a tutti i costi.
Sono invece convinto che l’Italia di 24 anni fa ha compiuto una scelta coraggiosa e all’avanguardia rigettando il nucleare. La sfida da affrontare è difficilissima: l’approvvigionamento energetico pulito e sostenibile, che dovrebbe essere derivato da una combinazione di fattori, e che necessita anzitutto del fattore più importante, cioè quello del buonsenso. Bisogna capire che la strada da percorrere prevede la produzione di energia decentralizzata, libera, capillare, strettamente locale. Dovrebbe esserci una fitta rete in cui ogni nodo è un piccolo “prosumatore” di energia: crea l’energia che utilizza, e cede il surplus ai nodi vicini. Si deve superare l’idea che dev’esserci un “gestore” dell’energia. Attualmente, il cosiddetto “gestore” dell’energia non la produce nemmeno: la importa, e ce la vende, guadagnandoci e facendo aumentare il costo della vita.
Siamo vincolati a pagare l’energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari francesi. Una delle più grandi critiche mosse da coloro che osteggiano il movimento anti-nucleare in Italia è che con i soldi spesi pubblicamente negli ultimi vent’anni per comprare l’energia dall’estero, saremmo riusciti a costruire noi stessi le nostre centrali nucleari; si tratta tuttavia solo di una sterile considerazione: ci si dovrebbe piuttosto domandare perché nessun Governo abbia agito, a partire dalla scelta popolare anti-nucleare del 1987, per arrivare ad attuare politiche energetiche funzionali.
Tornare oggi al nucleare sarebbe oltremodo controproducente. Non è vero che si otterrebbe tutta l’energia di cui abbiamo bisogno a basso costo: le centrali nucleari vanno costruite e devono arrivare progressivamente a regime, prima di essere efficienti da un punto di vista energetico ed economico. In secondo luogo, l’uranio arricchito costa, ed è una materia prima in esaurimento, che fra l’altro non si trova molto facilmente in natura, e quasi mai in concentrazione.
Le scorie non possono essere riutilizzate, a meno di agire anti-economicamente per via del loro basso rendimento relativo, ed inoltre sarebbero stoccate in maniera tale da essere inaccessibili per un lunghissimo periodo di tempo (a meno di catastrofi naturali).
In Italia, peraltro, esistono problemi (e ci sono fatti di cronaca che periodicamente lo dimostrano) legati alla corruzione e a comportamenti illeciti: la miopia di chi antepone il proprio interesse personale potrebbe portarlo a lucrare indebitamente nella costruzione di una centrale nucleare al punto da mettere seriamente in pericolo la vita (sia umana che non) e la qualità della stessa nell’area circostante per un raggio di decine di chilometri e per un periodo di tempo incalcolabile.
Infine, le centrali nucleari vanno dismesse dopo qualche decennio, e se non raggiungono un alto regime di funzionamento durante la loro vita, a conti fatti potrebbero persino dimostrarsi un investimento che non ha portato frutti o benefici particolari, lasciando un altissimo degrado nella zona in cui sorge: infatti, chi mai abiterebbe nelle vicinanze di una centrale nucleare dismessa?
Scelgo allora di non volere il ritorno del nucleare in Italia, perché voglio che le generazioni future non guardino a questa con odio per i problemi che rischiamo di lasciare loro, che vanno ad aggiungersi ai molti che già erediteranno da noi. C’è un detto che dice: “la terra che abitiamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, ma l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”.
Concludo, quindi, ribadendo quanto sia importante andare ad esprimere la propria opinione domani al referendum. C’è chi continua a ripetere che è inutile andare a votare, e chi è per il “no” vuole che non si raggiunga il quorum per non far vincere il “sì”. Io voglio dire la mia e voglio che la gente abbia a cuore questi che sono problemi importanti. Spero naturalmente che la gente, i cittadini, cerchino di migliorare le condizioni di vita in questo Paese, votando “sì”, ma più che altro mi importa che venga esercitata e rispettata la democrazia, e che tutti onestamente dedichino il loro tempo a questa bella Italia, ostaggio delle decisioni di quei pochi bruti a cui ciecamente continuiamo ad affidarla.
È importante: dite la vostra, che io dico la mia. Ma stavolta non tacciamo passivamente.

Quel coccodrillo bianco

Sei diventata il finale di uno spettacolo pirotecnico.
Cavolo, era ora. No, perché piove, e il tizio in parte a me è un killer seriale, e io devo anche andare in bagno. Vedo che lì c’è un cestino, ci butterò tutti quei foglietti pieni di appunti; che tengo in tasca invece che tenerli a mente. Eri qualcosa di altamente eccitante, eri qualcosa di descrivibile. Ora non sei che la fotografia fatta con il cellulare. Mi vieni in mente, ma ci sono troppi pixel che ti sgranano. Restano ricordi un po’ più colorati di certe sensazioni, di come era la tua voce, e di quello che mi portavano le tue parole. Anziché lanciarli, i fuochi d’artificio che sto guardando, mi scoppiano davanti. Fioriscono, aumentano di numero, rumore, sfumature. So che da qualche parte lasciano cadere pezzi carbonizzati di sé. Minuscoli pezzettini, che nessuno andrà mai a cercare.
Lo spettacolo sta finendo. Mi spiace, mi piaceva. Vuoi mettere, però, l’arte di costruirlo, un fuoco d’artificio? Che magari d’artificio ha solo il nome: alimentare un fuoco vero, un fuoco caldo, piuttosto che colorato. La tua bocca storta e i tuoi occhi asincroni: da anni rinfocolano l’amore per qualcun altro… dunque, perché sono ancora qui? Avevo pagato, era un mio diritto rimanere.
Non ha importanza. Non c’è più niente da vedere.
Faccio l’occhiolino al killer seriale: verrà a trovarmi quando lo deciderà.
Rimetto la mano nella tasca finalmente sgombra. Sì, mi fischiano ancora un po’ le orecchie: è difficile, il silenzio. Cerco di capire il movimento dei miei passi.
Mi domando se sia ancora così presto chiedermi come sarà il prossimo spettacolo.

Intervista

“Perché c’è bisogno di rima?”

Eh, serve perché la gente tanto non ascolta veramente, però, boh, si accorge che ritmicamente si ripete la stessa sillaba, e allora balla. E se balla, resta. E se resta, consuma.
La musica commerciale è un’invenzione dei commercianti per tenere le persone lontane dalle cose serie e fargli spendere i soldi in patatine fritte, bibite zuccherate e bevande alcooliche.