Arrivederci!

Ma non potevamo fare a meno di incontrarci alla stazione delle nostre vite?

Mettiamo che ci fossimo conosciuti ad un incrocio: avrei scelto la tua strada! E invece siamo fermi nello stesso posto; ma non “stiamo”: transitiamo. Dallo stesso punto, questo è il problema; due destinazioni e due tempi di arrivo diversi. E tu partita da chissà quando.

Però un po’ mi hai sorriso, e un po’ mi hai sbirciato. E anche se non ce lo siamo mai detti, seduti a due scompartimenti di distanza, incrociandoci fra le file dei seggiolini occupati da uomini e donne normali, giusti, sbagliate, indelebili, ci siamo bisbigliati un appuntamento, senza afferrare di preciso se, come, dove, quando. Ci basterebbe svegliarci una mattina qualsiasi, prendere il telefono, uscire, recarci in un qualunque direzione; ascoltandoci seguiremmo le indicazioni verso l’un l’altra. E non ci sarebbe niente da chiedersi, niente da trovare, cercare, capire.
Saremmo, staremmo; ma per ora: arrivederci.

E grazie.

Desiderato “se”…

Sono andati via tutti quanti, hanno lasciato qui le luci accese e le orecchie ronzanti, la stanchezza, gli appunti mentali per l’indomani.

Libero il tavolo da quelle ultime due o tre cose, levo le briciole, le coppette, le forchettine; gli stuzzicadenti infilzati nelle molliche di pane, sparsi qui e là su un campo come di battaglia minato da macchie di vino e sughi.

Mi volto verso il citofono, ma non suona.
Eppure dovresti essere quasi qui, mi hai fatto uno squillo prima, segno che stavi partendo.
Mi volto ancora: niente.

Spengo le luci in cucina. Cammino lento, mi sdraio comodo sul letto, e poi accendo la lampada. Non credo che staremo qui, poi, quando arriverai. Guardo come ho sistemato i libri, penso come sarà la stanza quando ne ridipingerò le pareti…

Il cellulare sta suonando. Lo raggiungo, ha smesso: uno squillo. Tu. E come in una festosa sequenza, il citofono! Uno zompo e son lì a dire “chi è?”, ma è inutile: ti ho già aperto la porta. Un giro di chiave, socchiudo, esco con la mano per accenderti la luce delle scale. Sto in piedi, tenendo la maniglia; apro davvero quando sento i tuoi passi. Sorrido al tuo sorriso, mi scosto per farti entrare, e quasi sussurro un “ciao!”.

Abbiamo lasciato qualcosa per te, “che bevi?”.

E poi siamo sul divano, illuminati dal solo schermo. Gusti la pizza fredda e la fetta di torta come se fossero ambrosia; quel che sorride di più, in te, sono gli occhi. E restiamo, così, istupiditi e fermi dalle circostanze, chiedendoci che ci facciamo lì, quando finirà la bravata, come potremmo fare a scioglierci.
E sapremmo che basterebbe un solo sguardo, e l’avvicinarsi delle mani…

Stiamo lavorando per voi

Uno dei prossimi fine settimana dovrò mettermi di buona lena e finire di sistemare due o tre cosucce in casa mia… anzitutto DIPINGERE DI ROSSO (!!!) il mio studio, e dare una rinfrescatina anche al giallo della mia stanza. La voglio più gialla, adesso è un po’ sbiadita (prima era azzurra/verde, un colore orribile). Dovrò nuovamente armarmi di trapano per ridisporre le mensole, e di stucco per coprire i futuri vecchi buchi. In seguito dovrei reinstallare un po’ di prese della corrente, perché sono ancora quelle vecchie da 10A, far correre un filo attorno ad una porta, ridisporre anche i ripiani degli scaffali in garage, rimettere in sesto la mia vecchia bicicletta, riparare una serratura, riappendere un po’ di quadri.
Quanto vorrei avere dei fratelli, in situazioni come questa! ^_^

Sentendone il bisogno

Chi sei?

Tu, dietro ad un bancone, o con un vestito a fiori dentro una coincidenza magnifica; tu, anche quando non ci sei: che cos’hai, in te?

Sei d’ottone, e risuoni un richiamo caldo, rotondo. E mi si spande il cuore, lo sai? Lo credevo stretto in strutture d’ossa e rimpianti; guardalo ora, invece! Guardalo, sentilo sorridere – per te.

E ti penso spesso, anche. Mi scopro immaginarti, mi immagino parlarti, accompagnarti dentro incanti, dentro giorni di sciarpe e macchine sotto la pioggia, giorni di mani e tensioni, di pulizie e preparativi, faccende, tavoli e abbracci. Specchi, porte. Secchi, lenzuola, dischi, inceppamenti, traffico e soldi.

Mi sdraierei e ti ascolterei parlare, e ti darei anche le mie parole, e i guizzi dietro ai miei occhi. Ti darei il mio futuro, il mio corpo, le mie mani, la mia faccia, le mie fatiche, i miei problemi, la mia forza, le mie paure. Mi confonderei con te dentro un abbraccio, dentro un pronome, un avverbio, un suono che non sia una nomea che delinea il confine fra tu e io. Litigheremmo per un piatto sporco, sorrideremmo dopo aver fatto l’amore, inizieremmo tutta una nuova generazione di persone spettacolari e deludenti.

Ci separeremmo, e ci rivedremmo poi.