Incendio

Nessuno. Beh, no, nessuno no, dai. C’era sempre lei, appoggiata a quella macchina, la sigaretta accesa. Cravatta slegata, ti avvicini sorridendo ad un sorriso distratto. Gente concitata ovunque, i segni dell’incendio divampato improvvisamente in uno sgabuzzino si vedono ancora. Non conoscersi ad una festa, ed incontrarsi fra gli sfollati. Interessante.
Ti sei avvicinato. Non hai un Martini, e nemmeno lei. E ci scherzi su, che altro vuoi voler fare?
Poi avete voluto aver superato il cordone di sicurezza, da dentro per fuori; “le macchine le recupereremo dopo”, dici. E vi spingete con i vostri stupendi abiti nel centro della cittadina sul mare. Non capisci come mai tutto sembri essere stato spostato in Spagna, da un momento con un altro. E non sai che ore sono. Il tempo è stato preso per essere scosso violentemente, così da fargli assumere altri aspetti, sapori, caratteristiche.

“Peter”
“Fiona”

No, meglio.

“Ron”
“Lizzie”

Insomma, è lei che inizia a parlare, per prima. Tu l’ascolti, e la guardi pure. Dentro gli occhi, e fra la bocca ed il naso. Quando tocca a te continuano a passare macchine, urti gente, c’è chiasso. Lei non capisce mai, ma ride, e ride, e ride.
Le case sono contornate a china, a ridosso della piazza. Saltimbanchi e mangiatori di fuoco, lo spettacolo risuona di monete, tamburi, sopracciglia alzate e sguardi fissi di bambini, di numero in numero, fino alla danza delle sciabole.
Vi erano due duellanti, un uomo e una donna, ma il numero era a tre con la luna. Le figure muovevano scie di riflessi filanti, freddi d’argento e caldi di forgiatura, in una danza di incanti, tracciata nell’aria e nella gente.
Ed ora sapete esattamente che ora è, che tempo è; e tornate fra gli invitati della festa rovinata, fra le macchine, le cancellate e le fontane, senza badare ai vostri rispettivi nomi. È stato bello così.

Nei giorni del santo in pezzi

Non mi faccio la barba da un paio di settimane, credo. Fa schifo, la mia non è una bella barba; giusto qualche spelacchio qua e là. I miei capelli ricrescono. Sono ancora abbastanza corti da promettere di essere meno ricci. È ancora troppo presto, comunque.

Ci siamo visti in una serata con una falce di luna in eclissi.

Pausa estiva dal lavoro.

Sento qualche ragazza, ogni tanto. Lancio bidoni, chiacchiero. Chi va, chi viene.

Ho riordinato ancora un po’ il garage, accatastando del legname nella zona doccia; ne ho rimosso lo scambiatore, così non si rischia di aprire il rubinetto inavvertitamente e di fare un macello ogni volta. Ho riaggiustato la serratura, il cilindretto continua a saltare mezzo giro di chiave: secondo me è mia madre che sforza. Le ho spiegato bene come si fa.

C’è stato un sacco di vento, qualche lampo notturno, un po’ di tempesta.

Messaggini, telefonate varie, conversazioni su MSN.

Richieste di amicizia fatte, ricevute, accettate, rifiutate.

Ho chiesto ad amici che partono di mandarmi cartoline dal mare, dalla montagna, da ovunque.

La libreria in camera di mia madre ha ceduto, sparpagliando libri, CD, soprammobili, polvere; una statuina di San Giuseppe è andata in pezzi.

Un tranquillo week-end di paura: sabato

Play.

Appuntamento nel parcheggio di un certo locale a mezzanotte! E così non è più sabato, in pratica, e comincia quello che poi potrebbe essere ricordato come “un tranquillo week-end di paura”; non ha importanza adesso, comunque.

Zaino e chitarra. Poco prima mi muovevo portando a tracolla l’uno e a mano l’altra lungo una notturna Via De Gasperi, in Carpen City. L’ex “Bar Gas” che ha riaperto i battenti per l’ennesima volta è la cornice della mia camminata spettacolare fra passanti, bambini curiosi (“cos’è?”) e fari di macchine. In qualche minuto giungo al “Jazz”, stasera nella sua ultima sera… almeno fino a settembre. Sono solo, è prestissimo. Di lì a poco arriveranno gli altri, e poi finalmente la rivedrò.
La rivedremo tutti, voglio dire.

Scorrimento veloce.

Siamo nel parcheggio di un certo locale. L’ora in realtà è un po’ oltre la pattuita mezzanotte, e ancora deve arrivare gente: si fa ghetto.

Scorrimento veloce.

E quante macchine, qui sul lago! Io e il mio amico ci divertiamo a scambiare le lettere delle scritte che vediamo qui e là. Le insegne si trasformano, i cartelli diventano ridicoli, e suonano come “aterpo giutti i torni”, o “una cazzina di taffè”.
Facciamo un po’ di mish-mash, perché al posto dove volevamo andare… beh, non ci si può più andare.

Scorrimento veloce.

Dio, che vento. Ho freddo, davvero. Ma è come se fossi acceso dentro, e questo contrasto mi piace tantissimo. I palmi delle mie mani sono caldi, eppure ho la pelle d’oca! Il lago mi sembra un mare increspato, è un po’ che non lo vedevo. Mi ci tufferei. Sistemiamo i viveri, gli asciugamani. Non conosco tutti, ma non importa. Si fa serata, ci si fa compagnia lo stesso. La chitarra suona praticamente da sola, non passa un minuto senza che si rida, senza che si canti, senza che si parli. Mi lancio (no, ma dai!) nell’imitazione del bluesman, mi sento l’istrionico protagonista di “One For The Road”. Alterno la festa alla solitudine contemplativa. Mi estraneo, anche e soprattutto da lei.
Non mi accorgo subito, del resto, che lei non è più sola. E che non è con me.

Lei e lui, lui e lei.

Mi scopro ad osservarli, ma bevo e canto, o guardo il buio.
Va tutto bene; in fondo sono illuminato dalla candela, in fondo sono riscaldato da questo sacco a pelo, in fondo sono abbracciato da questa notte, da questo vento, da questi suoni.
Immergo i piedi nell’acqua, sulla sabbia, sui sassolini. Chiudo gli occhi verso est, ascolto la risacca.

Sto.

Scorrimento veloce.

Sta per albeggiare. Chi diavolo ha messo su i Beach Boys? Mai una volta che mi capiti di sentire due volte la stessa canzone, di festa in festa. Ma li senti subito che sono loro, e chissà perché è più o meno sempre il momento adatto. Sta per albeggiare.

Scorrimento veloce.

Il cielo è grigio con una ferita rossa, là dove dovrebbe esserci il sole. Ci sono scogli, c’è l’acqua. Il vento non aiuta a muovere con fermezza i piedi in un Cammino che sia retto. C’è una potentissima simbologia in tutto questo, ci sono dei segnali, delle metafore. Non le colgo adesso, mi limito a guardare il cielo, ad andare nella direzione di chi mi chiama. Si deve tornare.

Stop.

Un tranquillo week-end di paura: domenica bestiale (seconda)

Non le senti poi così tanto circa trenta ore di veglia (quasi) ininterrotta, quando sei nella stanza d’ospedale di un tuo amico che sta anche peggio di te.

Sono le tre del pomeriggio dopo la tragedia evitata quella stessa mattina; e non riesco ancora a rendermene conto.

Lui se ne sta lì a guardarmi debole, malamente avvolto in una casacchina impermeabile di plastica verde semi-trasparente, ed è ancora sporco dall’incidente; ma il lettino su cui è steso seminudo è certamente lavato con Napisan (“è un presidio medico-chirurgico”).

Arrivare alla sua stanza è stato un inferno di scale e di stralci di sofferenza e solitudine. Ricordo l’occhio fisso di una ragazza sdraiata sotto il lenzuolo guardarmi passare oltre, nel corridoio; o frammenti di gesti resi lenti dall’età di qualche anziano paziente solo, sdraiato o seduto sul letto d’una stanza vuota. Un signore triste affacciato alla finestra aperta guarda questa giornata dal sapore metallico, una giornata in grado di mischiare sole e pioggia, l’ordinario e lo straordinario.

L’aspetto più incredibile dell’ospedale è il tempo: scandito e regolare trattandosi di orari per le visite, le ronde degli infermieri, degli inservienti, le visite dei medici; fermo, incerto e appena tracciato in un indistinto bianco-probabile quando sei il paziente, e aspetti. Aspetti di sapere qualcosa, e galleggi nel chiacchiericcio degli altri. I tuoi sensi ottusi dal dolore, dalla noia, non ti fanno render conto della durata di un giorno. Accogli gli eventi in maniera slegata e sequenziale, come se la pausa fra uno e l’altro non conti assolutamente nulla; come in verità è. Eppure fuori di lì cerchi di incastrare qualunque cosa nei ritagli del solo tempo che ti rimane per te, quando non stai parlando con gli altri, quando non stai lavorando, o studiando, o dormendo. O guidando.

Lasciamo il nostro amico ai suoi parenti, ad altri amici. Rivediamo visi, commentiamo, andiamo a vedere l’altro amico, quello con il piede rotto, che ora si trova in un altro ospedale. Siamo i tre che sanno, siamo i preferiti, gli scampati, i responsabili, quelli del “ma se invece di…”, quelli fra loro due e tutti gli altri. Siamo gli ingranaggi di trasmissione, e giriamo a velocità diverse per assecondare e mettere in comunicazione due mondi distinti, uno dei quali più lento.

Ci dividiamo, e rimaniamo in due. Di noi tre, uno torna alla vita normale, vera. Consueta. Con la ragazza, e lo spaziotempo là fuori, e le cose da fare che vi appartengono. Noi due si resta in stand-by, on the road. Chilometri per fare litri di benzina, e procedere da non-luogo, ad ennesimo non-luogo: un fast-food. Io sono sempre più stravolto. Mi ingozzo, rido e faccio battute. Chiacchiero.
Dopo un po’ siamo pronti, da fuori il tempo è giunto per richiamarci a partire, a tornare. Non percorriamo mai veramente delle strade, da un certo punto in poi: siamo vincolati dal ritorno, siamo legati a dei posti, a delle relazioni meno “di carne”, e più “d’obbligo”.

L’aria di casa ci accoglie, nella nostra birreria preferita. Torniamo da nessun-posto, e raccontiamo a tutti quello che abbiamo visto. Le conversazioni si legano, si ramificano. Le nostre esperienze diventano resoconti, il vissuto condiviso è memoria condivisa, e nel passaggio si modifica, filtrata dalle vicende di chi ascolta.

Passa altro tempo, giunge quello del sonno.

Saluto tutti, e me ne vo’.

Un tranquillo week end di paura: domenica bestiale (prima)

Sapete, mi dicono che l’ho scampata bella.

Fu la mattina di domenica scorsa, di rientro da una notte brava trascorsa nel vento del lungolago desenzanese.
Stava giusto per finire una maratona di veglia in corso da qualcosa di più di ventiquattr’ore, quando scesi da quella macchina lunga e nera. Salutai battendo vivacemente le nocche sul vetro della portiera, e me ne allontanai ciondolando, trascinando i miei passi nella zona pedonale, quindi su, e su, fin dentro la mia camera, zaino in spalla e chitarra.

Dormii un poco, giusto un paio d’ore, e non ne potevo già più.
Con un filmaccio in televisione presi ad assemblare un origami modulare.

Mi telefonarono per dirmi che gli stessi amici che avevo da poco salutato, ora si trovavano in ospedale.

“È uno scherzo, vero?”

No, erano davvero in ospedale. Quella stessa Mercedes nera che mi aveva portato fino a casa ora era ridotta ad un cumulo di rottami e lamiere deformi, vetri rotti e tubi, trasmissioni, fodere, bottiglie, carte, terra, sporco, benzina sparsa, olii, acqua, cenere. E, grazie a Dio, nessuna vita spezzata.

Giusto spavento, rabbia, delusioni.
Al guidatore, niente patente per un anno, all’altro un piede rotto. Per entrambi, tagli e botte.

Tutti quanti noi siamo stati rimproverati.

Perché, ci chiesero, stare fuori fino al giorno dopo?
Perché, stanchi e travolti, rimettersi al volante, rischiare la vita per la strada, per l’orario, per la (ir)responsabilità?

Cosa sarebbe stato peggio, in fondo? La preoccupazione, o il ritorno incolume?

Oh, ma quella notte…