Una continua ed intontita veglia

Queste città
le abbiamo costruite
in moduli
così da poterle resettare
volendo
tanto la varianza umana
che vi abita
è irrilevante

Qui non scende più la notte
Ed i sogni non esistono più
Una continua ed intontita veglia
Nella città che non si ferma mai

Siamo riusciti ad eliminare
religione e sentimento
ragione e sentimento
Tutto quel che resta
è il nostro
indiscusso
potere

Questo sistema
è perfetto
L’equilibrio
è stato raggiunto
Siamo sicuri
che riusciremo a mantenerlo stabile
Per almeno i prossimi
diecimila anni

Post brevemente assurdo

Era deserto, e cielo.
L’Uomo di Pane Secco girava in tondo per l’ennesima ora di un giorno infinito.
Niente più aeroplani, né principi, né cappelli/boa. Solo giallo e azzurro, oppure azzurro e giallo, dipendeva solo dall’inclinazione. Peraltro irrilevante.
Poi prese a piovere.
L’Uomo di Pane Secco si gonfiò d’acqua e cadde, molliccio, sulla carne di terra che aveva sotto i suoi piedi sempre più informi.
Con la bocca già chiusa per sempre (confusa, non si capisce bene, fra le pieghe del collo, o della pancia) si spiaccicò al suolo, producendo un rumore flaccido.

Numero Zero

Bip.

Aprì gli occhi su un soffitto bianco che non seppe riconoscere per tale. Non capiva, non riusciva a mettere a fuoco il bianco.

Bip.

Che è stato? Tentò di muovere la testa, e il dolore lo assalì, facendogli chiudere forte gli occhi.

Bip.
Bip.

Calma, calma. Riaprì gli occhi. Soffitto bianco. Non capiva dove fosse, non ricordava nemmeno da quanto fosse lì, cosa avesse fatto prima. Tentò di guardarsi attorno, ruotando gli occhi dolenti, ma, incapace di focalizzarlo, non riusciva a vedere altro che un bianco indistinto. Poteva distare un metro o due, non c’era una minima, percepibile differenza.

Bip.

Si concentrò sul resto del corpo. Gli sembrava di essere avvolto in una pesante coperta, ma realizzò che si trattava solo di una sua impressione. Azzardò un movimento delle dita, cominciò a percepire un lenzuolo sotto di lui… sì, lo sentiva anche sotto i talloni, le natiche, le spalle.

Bip.

Riprovò con la testa. Gli faceva molto male il collo, ma meno di prima. Si fermò dopo qualche grado di rotazione. Pensò che se non aveva costrizioni allora doveva poter essere libero di muoversi, e che forse doveva essere in quello stato da molto tempo. Si scoprì debole, ma ancora non capì per quale motivo.

Bip.

Percepì finalmente il sensore sull’indice della mano sinistra. A fatica provò ad alzare il braccio; gli doleva molto il fianco, la spalla, il gomito, il polso, ogni singola nocca e falange.

Bip. Il sensore era connesso ad un dispositivo posto ai piedi del suo letto. Si trattava di un affare grigio, dalle forme affusolate. Il luogo in cui si trovava era una stanza deserta, bianca, senza finestre. La luce artificiale veniva diffusa da più punti disposti ordinatamente appena al di sotto del soffitto, che, per quanto basso, non gli suggeriva un’idea di claustrofobica costrizione.

Bip.

C’era un interruttore vicino al suo braccio sinistro; decise di premerlo, e attese.

(continua)

Gilosk

Metti una fila di ombrelloni su una striscia di sabbia, ed otterrai i lineamenti dello sfondo su cui si svolge questa storia, la storia d’un prodigio estivo. Metti anche tutti i possibili stereotipi che ti possono venire in mente pensando alle parole “estate” e “spiaggia”, perché è lì che tutto si svolge. Non importa il colore del mare, o il taglio degli occhi della gente. Non importa la lingua che parlano tutti, non importa nemmeno di che colore sono i secchielli, le palette, i ghiaccioli, le sdraio e gli asciugamani. Potrebbero esserci tre ragazzi e una palla, su quel bagnasciuga; potrebbero esserci invece due vecchie sedute sugli scogli, le gambe e le caviglie a penzoloni nella spuma salina del mare. Scegli tu, inventa. In fondo, ogni storia è un pezzetto di fantasia.
E mentre tu ti concentri sui dettagli, lascia che ti presenti Marco e Lucrezia. Marco è quel ragazzo laggiù. Lo vedi? Non è molto abbronzato. Voleva andare in montagna, pensa! Lucrezia non è nemmeno la sua ragazza. Sta nel lotto successivo, in verità, ma il lotto successivo non è nemmeno poi così distante. Adesso ci starebbe bene qualche immagine di gabbiano, no? Per prenderla un po’ larga. Bisogna respirarla ogni tanto, una storia.

“Un …che?!”

Ecco, questo è Marco. L’intonazione della voce è quella che potreste immaginare dai tre puntini di sospensione; l’avrete certamente già sentita in dozzine di film. Sta sull’incredulo, più che sul sorpreso. È l’interro-esclamazione che Marco ha rivolto a Luca, detto il Borro (ma questo è un particolare irrilevante, naturalmente), sentendosi raccontare di qualcuno al quale qualcun’altro “si è avvicinato e gli ha gettato in faccia un gilosk”.

Sì, anche voi immagino vi starete chiedendo che cosa sia. E soprattutto chi sia il Borro, e di chi stesse parlando. Perdonatemi, avrei dovuto cominciare a raccontarvi questa storia con più ordine, partendo da un punto più remoto; il fatto è che siete capitati in questo continuum troppo tardi. Ora mi tocca ricorrere ad una digressione ed ad un’analessi.

Un gilosk è un manufatto appartenente al retaggio culturale di certe tribù nomadi che migravano fra il Medio Oriente e i Balcani circa tremila anni fa. Non ci sono giunte, al riguardo, molte notizie, e, a tutt’oggi, gli storici hanno proposto le più svariate ipotesi circa le origini e la presunta scomparsa di questo misterioso popolo. Le Genti del Giglio (così è conosciuta questa etnia oggigiorno) pare venerassero, fra gli altri dei minori, un dio chiamato Zil-Jak. Il culto di Zil-Jak si manifestava in riti propiziatori quali balli e canti dalle strutture complesse, con l’auspicio di ottenere buona sorte nei loro spostamenti. La mitologia e l’insieme della memoria sui riti veniva mantenuta intatta grazie ad una forte tradizione orale; i sacerdoti, o stregoni, erano soliti praticare la poligamia al fine di garantirsi una discendenza numerosa, e quindi una più alta possibilità di diffondere la propria scienza. Giunti ad un’età in cui venivano considerati autosufficienti, i discendenti del clero erano soliti abbandonare i propri genitori per fondare un nuovo piccolo insediamento; al momento della loro partenza veniva celebrata una breve funzione religiosa al fine di garantire la benedizione di Zil-Jak al giovane. In tale funzione, il giovane riceveva un gilosk come segno tangibile della vicinanza del grande Zil-Jak.

Un esemplare di questi manufatti trovò la sua strada attraverso i secoli e le mani di gente di molte diverse culture per arrivare nella vicenda che abbiamo lasciato in sospeso qualche paragrafo fa. Il Borro stava appunto raccontando a Marco della curiosa vicenda di un suo antenato divenuto cieco a causa di un’infezione quando era bambino, e di come riacquistò la vista in seguito all’incontro con un gitano. “Mio nonno da bambino mi raccontava sempre la storia del suo prozio Tunì, che riaprì gli occhi a vent’anni, come diceva lui. Accadde in una notte d’estate di chissà quanti anni fa, ad una di quelle fiera di zingari. Zio Tunì era preso male perché sapeva che i suoi amici potevano stare con delle ragazze, mentre lui non aveva nessuno. E niente, insomma una specie di santone gli si è avvicinato e gli ha gettato in faccia un gilosk”.
“Un …che?!”
“Un gilosk! Mi ha sempre detto così, non so che sia di preciso. Dev’essere una specie di amuleto – il nonno mi diceva di averlo visto una volta da piccolo, è una specie di sasso con su inciso quacosa”.
“Va bene. E poi? Tunì aprì gli occhi?”

Sì, lo Zio Tunì riaprì gli occhi, ma non vide mai lo zingaro che gli ridiede la vista. Si guardò intorno, meravigliandosi di poter rivedere la notte, le stelle, il fuoco del falò, e le proprie mani. Per terra, poco lontano da lui, giaceva inerte quello strano sasso levigato ed intagliato. Vi si avvicinò, si abbassò e quando allungò la mano per prenderlo, vide un’altra mano, più bella della sua, tendersi per afferrare la stessa cosa. Alzò lo sguardo, e fu contento nel constatare che una delle prime cose che vedeva ora che aveva riaperto gli occhi sul mondo era un volto che poteva benissimo essere quello di un angelo.

“Crèz…! Oh, CRÈZ!”
Lucrezia si guardò intorno un secondo, prima di riuscire a scorgere Francesca, che la stava appunto chiamando.
“Vieni a fare il bagno?”
Era troppo stanca per alzarsi, stava tirando dritto da ieri, e trovava già abbastanza incredibile trovarsi nel casino della spiaggia. Alzò la mano agitandola come per dire “vai, vai”, si girò e riprese a sonnecchiare. Quando riaprì gli occhi, qualche minuto dopo, era perché aveva la sensazione che qualcuno la stesse avvicinando: e infatti era la sua amica che le si gettava addosso ancora tutta fradicia. “Scema!”, gridò, cercando di mollarle una sberla, ma essendo stata colta di sorpresa non ottenne altro che di perdere l’equilibrio e di cadere sulla sabbia.
“Ahi! Scotta!”
Afferrò la mano del Borro, che l’aiutava ad alzarsi. “Ciao! Prendi sempre il sole così?”
“Grazie… no, è quella scema della mia amica”.
Francesca si avvicinò “…con un volo così, la scema sono io, chiaro…”
“Lei è Francesca.”
“Piacere, Luca. Questo qui è Marco. Come ti chiami?”
“Crèz!” intervenne Francesca.
“…Lucrezia”, chiarì lei, squadrandola.
“Beh…”, fece Luca, “vi va se prendiamo qualcosa al bar?”
Non ci fu possibilità di opporsi, Francesca aveva già preso sotto braccio il Borro, e se lo stava già praticamente trascinando al bancone. Ma perché doveva sempre far così?
Trovò invece molto simpatici sia Luca che Marco, per quanto quest’ultimo fosse un po’ più chiuso del primo. Presto Francesca e Luca cominciarono a dare l’impressione di conoscersi da una vita, e lui la invitò a giocare a biliardino.
“Vedete di non fare cose troppo strane, voi due!” disse lei, andandosene.
“Scema!”
Marco non riusciva a guardarla negli occhi, era un po’ bloccato, non si aspettava di rimanere solo con lei, una ragazza che non conosceva affatto. Non sapeva bene che cosa fare, non era tanto sicuro che in effetti dovessero stare seduti allo stesso tavolino. La situazione stava diventando un po’ imbarazzante. Decise di rompere un po’ il ghiaccio.
“Lucrezia… Certo che Lucrezia non è un nome molto comune…!”
“Non deve mica piacere a te”.
“No, no, infatti…”
Marco tornò a guardare la televisione. Pensava che forse era meglio se se ne fosse stato zitto.
“Scusa, è che sono un po’ stanca”. Rialzò lo sguardo, sorrise. “No, figurati…”
“Lucrezia era la nonna di mia mamma. Lei la adorava, sai? Dice che aveva dei poteri magici”.
“Davvero?”
Lei sorrise. “Beh, non so se sia vero… ma mia mamma ci ha sempre creduto, e così ha convinto mio padre a darmi il suo nome”.
“Curioso…”
“Che cosa?”
“Oggi è la seconda volta che sento parlare di magie, di miracoli…”
Risero. Marco pensò che il ghiaccio si fosse ormai rotto.
“Guarda”, esordì lei, “vedi questo?”
Lucrezia sollevò il ciondolo che portava al collo. “Era della mia bisnonna, gliel’ha regalato un ragazzo che aveva conosciuto quando era giovane. Questa pietra è una specie di amuleto, insomma, un portafortuna! Per mia mamma è grazie a questo che sono successe molte cose buone nella mia famiglia, nel corso degli anni”.
“Ah, io non ci credo in queste cose…”, fece Marco.
“Nemmeno io, però sarebbe bello se fosse vero. Magari questo coso mi farà incontrare la persona giusta!”
“Eh, eh! Magari”.

Lucrezia stava guardando gli occhi di questo bellissimo ragazzo. Erano come gli occhi di un bambino meravigliato, e fu sconvolta dalla semplicità che riuscivano a trasmettere. Tunì, d’altro canto, non aveva mai visto ragazza più bella in vita sua.
“Allora… questa pietra? L’ho vista prima io!”
Tunì ebbe l’impulso di abbracciarla, e lo fece. Pianse.
“Ero cieco! Ero cieco!”
Sciolse l’abbraccio, e la guardò.
“Qualcuno me l’ha lanciata sugli occhi ed ora ci vedo di nuovo… è un miracolo!”
“Forse ha voluto farci incontrare”.
Si guardarono, sorrisero. Le loro mani ancora strette sulla stessa pietra. Tunì chiuse la sua altra mano sulle loro, e lei lasciò la presa. Lui prese a cercare dei legnetti, e fabbricò una corda con la quale fece della pietra un ciondolo, che poi le legò al collo. Da così vicino poteva quasi contare i suoi capelli uno ad uno, osservare quanto la sua pelle fosse liscia, perdersi nelle pieghe del suo piccolo orecchio, ammirare con quanta perfezione la linea del mento finiva per delineare la sua mandibola. Erano così vicini da non capire se fosse il tepore dei loro corpi più caldo della fiamma del falò, erano così vicini da percepire il ritmo dei loro respiri.
Non si accorsero nemmeno dei primi fiocchi. Tunì e Lucrezia furono una sola pelle, quella notte d’agosto, mentre tutt’attorno cominciava a cadere la neve. Una neve candida e lenta, confusa nel baluginare della cenere del grande falò della festa, le cui braci languivano consumate all’alba di un legame fatto per durare in eterno, comunque, al di là delle decisioni del destino, oltre le barriere della vita e della morte.

Tunì e Lucrezia.
Lucrezia e Marco.

Eccoli seduti al tavolo di un bar, metti il solito bar della vacanza, nella più stereotipata delle spiagge. Metti gli ombrelloni e le sdraio, il cielo azzurro e i gruppi di ragazzi. Metti anche gli ambulanti, i coccobbello, i bibitari. E metti qualcosa di straordinario in tutto questo. Come quest’attimo in cui Lucrezia si gira un secondo per guardare fuori, lo sguardo gettato distrattamente sulla solita selva di vacanzieri al mare, per finire di vedere il primo fiocco di una nevicata cadere inspiegabilmente nel giorno più incredibile della sua vita.