Esotico #n

Prendi del denaro, e compra.
Compra qualunque cosa valga quel denaro: spesso assieme ti danno in omaggio cose invisibili che non ti riguardano.
Queste cose invisibili che non ti riguardano le porti appresso sulla schiena, che non riesci ad esaminare con il tuo sguardo diretto. A volte ti ritrovi davanti allo specchio, e te ne accorgi.
Tenti di scrollartele di dosso, ma è difficile, è faticoso.
Le tieni. Sono invisibili ai tuoi occhi per gran parte del giorno, e le dimentichi.
Poi quelle cose rimangono quando te ne sei andato dalla stanza.

Restano in uno splendido salotto rococò a farsi abbracciare da luce ovattata, fatta di raggi visibili nella polvere, e una sorda vibrazione. Finché il padrone nuovo arriva, guarda in giro, s’annoia.
Compra quelle stesse cose per rivenderle, e nel farlo se ne accolla di nuove. Invisibili, che non lo riguardando, e che tenta di scrollarsi di dosso, ma di cui si dimentica.
Il gioco continua, e continua, finché i salotti rococò diventano uno strato geologico di roccia sedimentaria.

Gli eoni passano, la pressione interna sale. Vi sono eruzioni, e oceani di magma acido, che alimentano reazioni esplosive: si formano montagne e valli, gole di canyon, piatti, freddi e silenziosi altipiani. In questo rimescolamento di concetti, un germe si forma: si moltiplica in filamenti. Ha un carico di micro-cose invisibili e che non lo riguardano che trascina qui e là. I filamenti si intrecciano in tessuti, il tessuto riveste un organismo nuovo: vita.

Nella notte millenaria dell’incoscienza, le stelle brillano sull’intelligenza assopita. Tremolano in bagliori di approvazione sulle conquiste del pensiero fattosi materia, realizzate scansando e trascinandosi attraverso una fitta selva di cose invisibili e che non lo riguardano. Viene plasmato e assorbito per osmosi, acquisisce una volontà, e una serie di intenzioni. L’occhio si fa bocca, l’apprendimento la digestione del cibo, e l’abbandono del rifiuto. Inizia il ciclo dell’azoto, la trasformazione degli zuccheri in energia. Si cristallizza il calcio, si stratificano le fasce muscolari. Bianchi denti affondano in rosse carni, e lacerano via energia a brandelli, e strazianti grida. La quiete della vita vegetale, la ricchezza di scambi e mutazioni del regno animale, il costante lavorio del’invisibile, e una struttura di conseguenze, cose invisibili e che non riguardano niente.
Va formandosi da una infinità di attimi, lega e separa ogni cosa: dalla prospettiva dell’infinito, causa e effetto vanno confondendosi. Ogni distanza è dimezzabile, ogni vicinanza è una forma di distanza, e dunque niente può essere veramente vicino: quel che non è coincidente, è diverso e slegato, e segue la corrente di cose invisibili e che non riguardano nessuno che i nostri Padri avevano ereditato dagli acquisti con il loro denaro.

Madonna dona cinquecentomila dollari ai terremotati dell’Aquila, si vedono delle stelle dalla finestra del mio salotto rococò.

Certi pensieri notturni

Odia per difendere, ama per costruire.
La cosa peggiore da fare quando ci si sente soli è proprio quella di stare da soli.
Se sei disposto a bisbigliare con qualcuno attraverso il buco della serratura, tanto vale spalancare la porta.
Tu sei l’Altro.
Ci si spaventa così tanto di fronte ad una prospettiva, e ci si annoia a morte se non accade niente di nuovo.
Il cambiamento non implica il movimento. Il cambiamento porta però da qualche parte.
Quanto sei disposto a ricevere per amore? E quanto sei disposto a dare per odio?
Se si cammina assieme, ci si ferma assieme. Ma se siamo chiamati, dobbiamo andare. Il Cammino dunque spesso non è il medesimo, e non sempre c’è un posto al nostro fianco.
Qualcosa che non volevi che succedesse è successa, qualcosa che volevi che accadesse non l’avrai fatta accadere: questo ci dovrebbe ricordare che non siamo mai veramente soli.
Le parole rompono il silenzio, i gesti sbloccano la paralisi.
Se sei stato spinto giù dal burrone, e sei sopravvissuto, la cosa più saggia è spostarsi da là sotto: qualcun altro ti potrebbe precipitare addosso, e tu potresti non essere più così fortunato.
Ama per essere, odia per avere.

La cagnolina e il locale jazz

Scivolo, e scivolo, e scivolo via, e le gocce sul parabrezza, e le luci, e il buio, e tutto scivola, scivola, e scivola. Amico, poi respiri, e poi c’è il tergicristallo con il suo colpo ritmico, il suo groove, il suo bum-pshhh… Prendi il treno, la polvere di stelle, e andiamo a Dixieland, amico!
E poi ci sono io, seduto su quello schifo di marciapiede, un tacco nella pozzanghera, un altro su una cicca di tabacco, a tagliare questo schifo di notte putrida con il mio rauco lamento blu.
Questo basso nanetto cattivo mi ha trascinato nell’ombra di grattacieli luminosi e scintillanti insegne al neon, fuochi di calore fatuo, alcolico, al lattice. Dove sei, zuccherino? Dove sei con la tua torta di mele, il coniglio bianco e tutto il resto?
Non ci capisco più niente! Mi fa male l’asfalto, lo sai? I passi mi fanno male, le punte degli ombrelli, il gioco della campana lavato via da questo acquazzone di fine inverno. Tutto sul mio collo, sulla mia guancia, sui miei denti, sulle mie lacrime.
Vengo via da Las Vegas ogni maledetto 1999; e me ne resto spiaccicato proprio qui, bello, fra lo sgabello e lo spigolo arrotondato di questo grosso, spesso, massiccio, legnoso e putrido bancone! C’è troppo ghiaccio in questo bicchiere, Laurel! Maurice, Laurel… è lo stesso…
E tu credi che non sia il tipo giusto per te, bellezza? Che non ce la possa fare? Credi che non ti farei divertire? Al diavolo, allora. Vai, vai, stai pure con quel pezzo d’impiegato! Con la sua Bentley del ’59, la brillantina, e tutto il resto. Vai! Ma vai davvero, riprenditi le scarpe e il rossetto che mi hai lasciato sul colletto del cuore. Stupida bambola! Di tutti i bar che ci sono al mondo, proprio nel mio…
Meno male che ci sei tu, sacco di pulci. Meno male, meno male.
Andiamo, è tardi. Lo senti questo? Questo è l’Uccello. Senti come usa il suo sax. Ti fa ridere, vero? Ah ah ah! E non farmi quel muso! Siamo entrambi soli come cani…

Il tardivo mio primo post del 2009

In realtà questo post è di stanotte, ma avendo avuto problemi di connessione sono costretto a pubblicarlo solo stamattina. Eccolo.

Tanto per scrivere e non comunicare nulla, ora mi siedo qui, e faccio andare i pensieri, le dita, gli occhi, le mani. Perché ho questa esigenza di strappare, ho questa esigenza di aprire la bocca e fare uscire luce. Ma giusto per un minuto. O cinque secondi. Poi me ne ritorno nella buca che mi sono scavato, e faccio il bravo. Ricomincio a masticare, sputacchiare, accumulare.
Io in realtà non sono dissimile da un castoro. Ma ho i denti cariati, e, sinceramente, cheppalle: sempre legno. Allora mi avvolgo in quella coda da cartone animato, divento una scaglia di cioccolato, che, sciogliendosi, mi rivela. Sopravvissuto ad un colpo apoplettico, ma rimasto cerebroleso. Sbagliato: io sono un malato di cuore. Sono un malato di milza, che però seguita a correre. La milza spappolata tanto si riassorbe in una grossa, oscura, pulsante cicatrice, che va da qui a lì, e si colora di diverso. D’estate prude, d’inverno sente il freddo.
Cicatrice, scar tissue. Che meraviglia, il nostro corpo! Fatevi tagliare una libbra di carne, e se sopravvivete, quel buco si rimarginerà.
Se chiudi una porta, la vista della stanza viene sostituita dalla vista della porta.
Chiaro, ovvio, semplice. Lineare. Se non ci sono più parole, se non c’è più contatto, c’è l’assenza. Assenza, silenzio; silenzio, sconforto; sconforto, dolore; dolore, forza; forza, sicurezza; sicurezza…
No. Non sono sicuro di come continui. Rimane sempre il pericolo della sepsi, e poi la cicatrice si rimargina solo se stai fermo. Squarciati la pancia, e continua a saltare, a torcerti. Vedrai se e quando il taglio si richiuderà! Devi star fermo, ma intanto puoi guardare. Puoi respirare. Puoi accendere un fuoco, e sbuffare messaggi effimeri su, su… sempre più in alto, fino a quando il doppler particolare tiene, finché la nuvoletta non si trasforma in un alone grigio e indistinto.
Lo so. Questo post non ha senso. Inutile che poi me lo venite a dire. Ma capite. Io qualcosa lo devo pur sussurrare. Sbraito già abbastanza, per niente. O per apparire, chissà. Allora sussurro queste mie cosette semi-criptiche, ma è un minuto, poi passa. I minuti passano.
Chiaro, ovvio, semplice. Lineare.
Promettetemi solo che sarete spigoli vivi. E muovetevi. La luce è già spenta, e io che m’aggiro, indistinto nell’invisibile, gradirei sentire comunque qualcosa, pure se fa male, anche se spacca, taglia. Fruga. Così, quando avrò finalmente trovato l’interruttore (scoprendolo inutile, vuoi perché non accende la luce che mi serve, oppure perché la lampadina è da sostituire), potrò cominciare ad apprezzare la mia facoltà di vedere, potrò appigliarmi ad una fatica, a qualche responsabilità maggiore del semplice “devo”.

La parola chiave, amici miei, è RISCHIO.