Questo nefasto venerdì diciassette

Quando ho commesso il più grande errore della mia vita (quello di lasciare la ragazza che mi amava nonostante tutto), ho cominciato a chiudermi in me stesso.
Una volta raggiunto un certo grado di distacco, ho tentato di tornare da lei – ma lei non c’era già più.
Ma continuavo a dirmi: “tornerà”.
Non tornò, e ormai sono passati quasi due anni.

Con mio grande disappunto, solo stasera sto realizzando di aver buttato nel cesso due anni della mia vita.

Quando ci lasciammo, io poi lasciai tutto il resto: gli amici, la cura di me stesso, lo studio, la musica a cui tenevo, il lavoro, pretendendo però sempre le stesse cose, e fingendo sempre e comunque che le cose andassero sempre bene. O almeno normalmente.

Mi sedevo alla finestra della mia torre d’avorio, e ricevevo gli altri come ospiti ai quali non mi sarei mai sognato di mischiarmi: le ragazze a cui ho chiesto di uscire mi hanno sempre rifiutato, Francesca non voleva saperne di me, gli amici certe volte non mi telefonavano più. Uno strano, triste, silenzio compulsivo ha cominciato a riempirmi le giornate. Tutte uguali, più o meno.

Ripenso a lei, quasi ogni giorno. Quando ci penso, se mi va bene il pensiero è fugace, e scivola via. Altre volte, come oggi, sento che mi manca al punto che vorrei strozzarmi per quello che ho fatto; che, se fosse solo per quello, poco male. Il fatto è che semplicemente non ho più fatto nulla, e sono stato spesso patetico, stronzo, meschino, falso, brutto, triste.

Non cerco di farmi compatire: sto sempre a dire che il blog è un mezzo con cui mi esprimo, e, davvero, se lo rileggo non riesco a trovare molte tracce di Tamer, fra tutte quelle parole.

Io amavo stare in compagnia, amavo stringere Francesca in un abbraccio, sentirne il respiro. Amavo anche solo camminarle a fianco. Amavo Dio, amavo la gente, amavo stare fra le persone. Guardavo i bambini, e sapevo che potevo farli sorridere.
E adesso che sono passati giusto due anni, che cosa posso dire, di me?

Niente.

Non ho niente da dire.
Penso che sia la più bassa concezione di me che ho mai avuto.

Questa volta è andata così

La prossima andrà meglio. Senz’altro.
È tardi, la mia pausa pranzo finirà tra pochi minuti; poi dovrò rivestirmi, finire il caffè, sciacquarmi la bocca, i denti. Inforcare la bici, andare al lavoro: le ultime quattro ore per oggi.
Senza fiato: cena, due lavoretti al PC da sistemare, caricare la macchina, andare alle prove.

Oggi ho mangiato verdure grigliate e il mio pane, olio e sale come condimento.
Ho fatto il solito caffè doppio, leggero.
Volevo sentire un po’ di certa musica, invece sto sentendo l’EP dei Detektivbyrån.
Ieri volevo fare anche io il bagno, sabato avrei voluto uscire, avrei voluto che non piovesse. Venerdì… la frustrazione del venerdì non me la ricordo. Meglio.

Ma questa settimana andrà meglio. Forse pioverà di giorno, ma non importa.

Sì, questa settimana andrà meglio.
Repetita juvant.

Campionario di banalità

Anzitutto eravamo partiti col piede sbagliato, cercando di fare il passo più lungo della gamba. Scivolammo così sulla proverbiale buccia di banana, cavalcando a spada tratta lungo l’argine della nostra incoscienza. Sedemmo sugli allori per mesi, e fu nel nostro maggio che raccogliemmo i frutti lasciati maturare al sole. La giostra dei cavalli a dondolo si fermò, e piansero i gatti sui tetti che avevano una macchia sul nasino all’insù, a guardare quella luna piena ed a rimirar le stelle.
Al di là della siepe, un deserto di macchine e i soliti maxi-sconti: i poliziotti ci mettevano le mani in faccia, donne nervose per i loro matrimoni in pezzi procedevano a zig-zag nel traffico cittadino. Dove son finiti i bei tempi andati? Quando eravamo piccoli i sapori erano più intensi, e si poteva stare sotto il sole che non ti scottavi: adesso chissà cosa c’è nel cibo confezionato. E poi l’aria è tossica e i mari sono inquinati. Le rondini se ne vanno a marzo e tornano a settembre, son qui in ufficio e non vedo l’ora che passi questo lento pomeriggio immobile.
Mi distrae il titolone delle testate giornalistiche: in questi spazi soffocanti non mi resta che impilare cassette della frutta e vivere vendendo matite e dormendo in scatole di cartone. Ho così tante sfumature che non mi resta che disegnare, tratteggio forme su fogli di carta buoni solo per incartarci il pesce. L’ospite mi diventa scomodo e ingombrante, ultimi scampoli di primavera in questo cielo a sprazzi. La fine dell’arcobaleno al di là dei miei sogni d’oro non è che tutto fumo e niente arrosto, sulla rotonda di un valzer dolcissimo nelle pieghe dei miei ricordi in una notte di mezz’estate.

Prosit!

Ci si deve abituare a tagliare il cibo in piccoli bocconcini grandi al massimo quanto una falange del proprio pollice: si devono infilare in bocca uno alla volta, masticandoli dapprima con gli incisivi e poi mano a mano distribuendo il bolo verso i molari, aiutandosi con la lingua. Bisogna masticare decine e decine di volte, sentendo sfumare la consistenza del cibo negli zuccheri e negli amidi rotti dall’azione enzimatica della saliva. Si deve riuscire a deglutire senza sforzi, e il prossimo boccone va fagocitato a ingestione ultimata del precedente. Le prime volte si scoprirà che il tempo del pasto si allunga notevolmente, ma che con la bocca meno piena si parla anche un po’ di più e si gusta meglio il sapore delle cose, oltre che della compagnia di un altro essere umano. Diventa comunque necessario masticare un po’ più in fretta per non attardarsi troppo a tavola: questa maggiore stimolazione mascellare produce un massaggio alle trombe di Eustachio poste nell’orecchio interno, facilitando l’espulsione del cerume. Di conseguenza, oltre a farvi sentire meglio poiché ci si facilita la digestione, insomma, masticare velocemente piccoli bocconi v’aiuta anche a sentire meglio in generale, e questo è sempre importante nell’ascoltare qualcun altro che parla, che peraltro non dovrà sforzarsi di usare un tono di voce troppo alto, riducendo così l’inquinamento acustico. Dicono anche che sia meglio iniziare il pasto con della verdura a temperatura ambiente: essa contiene sostanze che stimolano la pepsi e danno un maggiore senso di sazietà. Ovviamente, poco tempo dopo il pasto capita di sentire un leggero appetito: è una buona occasione dunque per spezzare l’attività, e gustarsi un frutto di stagione, bersi del tè, fare due passi, sgranchirsi le ossa, ossigenare i rapporti, sorridere.
Ci sono sempre dei validi motivi per essere seri, e mai abbastanza di altrettanto validi per essere sempre seriosi rispetto al quotidiano.

Superperdente

Come si chiama quando lasci perdere il tuo schiacciante vantaggio? Come si dice quando tutto quello che vuoi opporre ad una carica di bufali impazziti che sta per travolgerti è un semplice gesto del braccio, e a volte nemmeno quello? Come si chiama quando Kal-El indossa abiti di kriptonite, o è vicino ad una pietra di Clark Kent, cullato dal sordo vibrare della propria impotenza?

Centomila cavalli vapore di potenza dispersi in milioni di anni luce cubici di vuoto mentale prima di esprimersi.

Il mio amico superperdente osserva un mondo che non capisce attraverso un oblò portatile indossato su un occhio solo; sull’altro porta una benda, e si copre le orecchie così forte che invece del silenzio ascolta il proprio dolore pulsante. Al ritmo del cuore, al ritmo del cuore…
E intanto fuori piove, e intanto fuori albeggia, e la gente passa, e si muove, e fa le cose che deve o che può, o che vuol fare.

Al mio amico superperdente gliene frega soltanto delle cose che riesce ad afferrare. Spesso nemmeno di quelle. Otto milioni di farfalle sotto formaldeide lo lascerebbero al suo torpore, la foto di una formica lo esalta a livelli di fissione atomica. La debole carica magnetica nella sua memoria a breve termine si esaurisce in piani ondeggiamenti ridondanti, al sicuro di un’insonnia scavata in un bozzolo sotto le coperte.

Essendosi ritirato a vivere nella sua testa, osservando il piattume da un solo occhio, il tempo assume un significato atroce: l’assoluta immobilità di un giorno che è valido per ogni data. Il pomeriggio di ieri e la mattina dell’anno prossimo descrivono lo stesso grigiore, lo stesso sangue flemmatico, gli stessi bordi delle medesime pagine bianche, scritte con pazientissima e certosina cura con l’inchiostro simpatico.

Eppure qualcuno c’è. Nella stanza del palazzo disabitato puoi osservare l’assenza di polvere e ragnatele. Puoi osservare i resti d’un pranzo, le foto d’una domenica d’inverno. La moka col caffè ancora caldo dentro. La sensazione d’una voce dall’altra stanza.

Eh? Aspetta. Era solo un’impressione.
Ricominciamo.

Ciao, come va?