Frane informatiche e dintorni

Spero che l’ottava re-installazione di Ubuntu sul mio scassatissimo portatile sia quella definitiva.
Non dovrei aver perso nulla, né una singola mail, né un singolo carattere True Type, né un singolo MP3. Tutto è precisamente archiviato e catalogato nel mio efficientissimo hard disk esterno (che ho ribattezzato “Filippo”, il nome più consonante alla sua intuibile marca). Ora posso tornare al lavoro e ad essere reperibile su Internet. Per il resto, in questi giorni di deriva informatica sto scoprendo Siddharta di Herman Hesse, e un mondo estremamente colorato e pittoresco sigillato ermeticamente all’interno dei miei sogni. La domanda è: come portarlo fuori?

Mariobròs

Pomeriggi interi ad idealizzare la femmina in un reticolo di pixel 8×8. Sedici colori, tre canali mono di pura sintesi sottrattiva. Il vecchio Grundig verdastro, la scatola grigia con su scritto “Nintendo”. A volte le cassette mica andavano. In nessuna rivista se ne spiegava il perché. Niente Google, né Wikipedia, a cui rivolgersi per trovare soluzioni. Il videogioco rimaneva un mistero da risolvere quotidianamente, ogni volta daccapo. Ottavo mondo, tre vite rimaste: ti cagavi sotto, eccome. E sistematicamente subivi traumi freudiani. Di continuo, in quantità industriali. Imparavi ad odiare tua madre, il tuo fratello piccolo, l’amico al telefono, ogniqualvolta ti interrompessero prima di un salto impossibile, o quando entravi nel castello. Odiavi tua madre, e odiavi Toad, quel travestito che in una lingua diversa ti faceva capire che la principessa era in un altro castello. E tu: “d’accordo, dammene ancora”. L’incubo dei fratelli Hammer, quel cazzone sulla nuvoletta e i cosi rossi con le spine. E perché Mario non sviene a forza di spaccar mattoni col capo? Come riesce a rimanere vivo sott’acqua per tutto questo tempo? Fermo e impassibile aspettando che passi la piovra che non va via se la guardi…
Ragazzino, tu non puoi capire. E nemmeno tu, donna dei sogni. Principessa irraggiungibile, premonizione delle future sequele di frustranti delusioni amorose: rischiare la pelle per salvarti dalla dispotica tartaruga mostruosa e sputafiamme, e tu manco ci sei.

1984-2009

Dopo alcuni anni ho modificato questo post per applicare della CENSURA.

Mi sono *******!
In un caldo pomeriggio di agosto, ho deposto i miei *********.
(e il cervello ad azzerare il dolore)
E poi,
ogni mattina a versare latte, e a fagocitare, a masticare minuziosamente, ad ingollare durissimi frammenti. Ogni sorta di frammento. Nella mia scodella pre-post(a), inzuppavo biscotti enormi, ingombranti, ottundenti, ronzanti, pelosi, viscidi, volanti.
Vivi un cortocircuito mentale?
Vivo un cortocircuito mentale?
Copula: è vivo un cortocircuito mentale? Eccetera.
Ad ogni modo, presi ad avere noia. Presi a gonfiarmi di essa, a traspirarne ad atmosfere.
Noi, noia, noioso, io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so.
Nessun calore, se non nel breve lasso di tempo intercorso dallo spegnimento della lampadina ad incandescenza. Nel vuoto cosmico, un incommensurabile filamento di tungsteno andava raffreddandosi riscaldando. E tutto procedeva verso lo zero, pur assommando costantemente valori medi, scarti, delta, vettori nulli. Hai coscienza del tu scomparso fra l’adesso e l’Adesso?
Eppure, sei.
Di ******* in *******, fra i tuoi ***** e il ******, la tua ***** odorosa, il tuo pus, i tuoi germi e batteri… costantemente bellissima, femmina, attraente, umida, calda. Al di là di me, al di là del tuo giallo vestito a fiori. Quarantena.
(seduto in un angolo irrilevante, perduto e pentito osservo rimarginarsi la mia cicatrice ********, così simile a quell’apertura, ora tanto agognata, eppure tanto grottescamente dissimile, incompleta, inutile)
Da qui, sperimentavo con l’Attak. Il potente collante non penetra il teflon dei non-rapporti, e tutto è ricoperto dalle incrostazioni dell’infertile ****** secco.
La sabbia è ovunque, più dappertutto dell’arsura marina e si attacca, occludendole, alle mie narici avide, pronte a sbranare qualunque spazio, qualunque silenzio, qualunque sguardo indulgente: amami, *** ***!
La sabbia è ovunque, più dappertutto dell’azzerante sapore del sale che riga la mia faccia. Come si chiama il demone che mi fa visita ogni notte? Maldoror… lo odio. Lui non mi odia: ne è incapace. Eppure la sua stessa essenza acida reagisce col mio essere orizzontale, basico. Non inerte, e, anzi, oltre misura sensibile. Maldoror mi respira dentro, lingua su lingua, saliva in saliva. Le nostre rispettive mani sulle nostre rispettive cicatrici. E ci culliamo al buio indugiando sul piacere spiccio, colloso, buio, insoddisfacente e mai, mai, mai reciproco.
(lo specchio non riesce a riflettere i miei occhi visibilissimi)
[omissis] profonde radici nel mio animo marrone, legnoso, terroso, magmatico. Innumerevoli spade e gambe marcianti tuonano guerra da remoti campi di battaglia. Vent’anni gettati nella mischia, e, anzi, molti di meno: uomini o soldati? Scontro fra forze, e di chi è la proprietà dello scudo più invincibile?
Cade un petalo nero grande come la notte, fra i corpi dimenticati al sole. Il popolo vittorioso non avrà che da forgiare nuove mani, nuove spalle, nuovi membri per abbracciare una pace più lunga. Il dispendio calorico per il mantenimento sulla frontiera della guerra sporca e cattiva ha un leggero calo, ma si riprende. A regime. Con costanza, torno a riempire la mia scodella prima-dopo. Riapro gli antelli della cucina. Riapro i cassetti. Ne estraggo cereali e cucchiai, latte e biscotti. Rivedo rinascere il sole, riascolto ribattere la pioggia. Saluto nuovamente un giorno trascorso, riabbraccio quello nuovo. La rasserenante consistenza della ripetizione, l’ennesimo rituale con il suo carico di insignificanza matematica. Infinitesimo di ottant’anni suppergiù, e io che non ho punti notevoli.
Il ciclo gastrico ripete la conclusione di quello precedente, e via così. Considero la consistenza *** *** *****, ****** ** ***** della mia pancia. Comodo maiale astinente e viziato, ballo verso la fine della giornata, la fine della settimana, la fine del mese.
La fine della solitudine.

Qualcosa da curare davvero

Post in risposta ad un articolo su Facebook.
L’articolo è un po’ esagerato, e cade un po’ nelle argomentazioni di chi pensa al solito complotto internazionale. Non so se ci siano mai stati questi stratagemmi corali ai danni della collettività; ho sempre preferito pensare fosse una sorta di tendenza automatica, generata dal “tentativo di averci provato” che, coincidentalmente, riguarda più organizzazioni statali, parastatali, sovrastatali, enti più o meno locali, et similia. Penso che sia una sorta di “comportamento di riflesso”, un fenomeno amplificato dai gesti via via sempre più importanti man mano che il committente ha responsabilità più pesanti, e che sono generati dall’ignoranza, dalla malafede, dall’opportunismo, dall’interesse, tutti così caratteristici della nostra cultura (o meglio, di quel che ne rimane).
Nell’articolo si parla di “culto del bene ad ogni costo”; in realtà, si tratta di una cultura del bene al costo minore: ammalarsi, per un dipendente, significa doversi assentare dal lavoro per curarsi. Questo ha ovviamente effetti sulla produttività, che in certi casi può risentire dell’assenza di un certo dipendente (sto pensando a mansioni specializzate, siano esse in officina o al computer), e in ultima analisi, sui profitti. Stagionalmente, queste assenze possono essere più frequenti, e quindi generare un “costo sociale”. Non so. Credo che nelle nostre campagne l’inverno fosse la stagione in cui ci si fermava un po’, per quel che riguardava il lavoro nei campi, e ci si dedicava alle manutenzioni, a far figli, alle feste religiose, ai pranzi e AI DIGIUNI che esse comandavano. Oggi pretendiamo il servizio 24/7, e lavoriamo invariabilmente da settembre ad agosto, in parallelo con le stagioni, col maltempo, con la nostra dimensione umana.
Per far prima, ci facciamo operare i polsi quando ci viene il tunnel carpale, stadio ultimo di infiammazioni dimenticate con gli antidolorifici. La chirurgia ormai ha tempi di recupero da day hospital.
Per far prima, ci facciamo vaccinare, e poi ci imbottiamo (suppongo) di ricostituenti e antibiotici. Così non dobbiamo sprecare R.O.L. o ferie “per la malattia”.
Tutti questi ragionamenti ci stanno. Se abbiamo il modo di arginare i malanni, perché no? Non dobbiamo dimenticare che è anche un modo per controllare i falsi malati: al giorno d’oggi, chi può più permettersi di stare casa con la scusa del 37 di febbre?
No, non ci sono complotti; giusto quell’opportunismo alimentato dalla cultura malata di cui è curiosamente sintomo.
Qualcosa da curare davvero è il nostro bistrattato buon senso.