Nel vento e nella luce

Ricordo una sera tardi, di qualche anno fa. Credo che avessimo finito di fare le prove, o forse addirittura avevamo finito di esibirci in uno spettacolo. Erano i primi tempi in cui suonavo con Nicola, i tempi in cui iniziavo a conoscere, fra gli altri, anche Claudio, William, Sisto. Annalisa.

Quella sera Annalisa ci ospitava nel suo soggiorno. Ricordo una parete dai toni rossi, un divano verdastro, un tavolo e altri mobili scuri. Alle pareti mi pare ci fossero dei ritratti, ora non saprei dire se alcuni li avesse dipinti lei. Sisto stava raccontando un qualche aneddoto a proposito di un camioncino che trasportava lenticchie di Altamura, e lo faceva intercalando parole nel suo dialetto pugliese; e anche se adesso, davvero, l’immaginazione sopperisce alla mancanza di memoria, non era affatto improbabile che in quel soggiorno le risa accompagnassero parlate dai diversi accenti: ora alto-mantovano, ora pugliese, ora veneto. Benché fosse tardi, ricordo che Annalisa aveva preparato per noi musicisti un po’ disperati, una tavola imbandita, con cibo e vino in abbondanza. Le avevamo invaso la casa, o almeno il soggiorno, e ci ripeteva di essere contentissima di averci lì, mentre non avevamo altro da offrirle se non la nostra sgangherata allegria cialtrona.

Un’altra volta eravamo da Annalisa quando aveva organizzato un memorabile burièl in occasione di Sant’Antòne. È una antica tradizione di inizio anno che consiste nel fare un falò con cui bruciare simbolicamente qualcosa di vecchio, che ci portiamo dentro e magari ci fa soffrire, liberandoci così da esso, e alimentando anzi con quel sacrificio maggior luce e calore. Non ebbi il coraggio di portare con me quello che pensavo di gettare nel fuoco; ma trovai molto significativa quell’esperienza, e ogni anno a gennaio ci ripenso. Quando penso ad Annalisa penso sempre a quel falò, all’urgenza di doversi liberare dal passato, soprattutto quando non ci fa vivere in serenità.

Annalisa invitava spesso noialtri musicisti da lei, quando passavamo in zona. Una sera ci invitò dopo un concerto con gli Incoscienti Suonatori Jones, e ci mostrò una particolare parete della sua cucina le cui piastrelle erano coperte di firme, dediche, disegnini, da parte di chi passava di lì. Non erano scritte fatte con l’indelebile, ma con i pennarelli tipo quelli per le lavagne bianche. Si potevano cancellare con uno straccio umido. Erano un segno effimero, effimero come i sogni, i fiori, le belle giornate di sole, la vita, le risate sguaiate di una corsa sotto la pioggia, gli arcobaleni, le stelle cadenti, le speranze. La cucina di Annalisa e le sue piastrelle bianche sono un luogo speciale che conservo nel mio cuore.

I miei sono frammenti di ricordi, immagini impresse in una retina emotiva: Annalisa che capita in sala prove portando liquori o dolci fatti da lei. Annalisa che sorride nei brindisi, che canta le canzoni. Annalisa che d’estate porta un vestito rosso su cui lascia cadere i suoi lunghi capelli neri, mossi. Annalisa che ti ascolta quando parli, che ti sorride e ti dice qualcosa che ribalta la tua visione delle cose in quel momento, aiutandoti a ricordare che non esiste solo l’apparenza oggettiva delle cose, ma tanti diversi sensi da trovare, soprattutto in te, e che forse ti permetteranno di osservarti come da un punto di vista più alto e leggero. Planando nel vento e nella luce.

Annalisa oggi si è unita al vento, ed è là che un giorno la rincontreremo. Servirà bruciare questo dolore che oggi sentiamo, servirà bruciarlo nel falò più luminoso e caldo che riusciremo a fare. Perché non sarebbe giusto lasciare che la bellezza che lei è stata capace di farci vedere chiaramente si perda nel buio della notte.

Il Foglio Bianco

Scrivere sul proprio blog può essere piuttosto difficoltoso. Lo dico perché per me è così: ogni volta che mi siedo con la ferma e precisa intenzione di vergare un post, la mia mente decide di prendersi una vacanza, e lasciarmi lì, davanti al “foglio bianco”.
Il foglio bianco è come un bel paesaggio innevato: si finisce col convincersi che va già bene così, vuoto, puro, pieno di positivo potenziale.
Le parole scritte sono più rischiose. Una volta che le hai disposte devi solo sperare che la loro geometria sia abbastanza solida per non deformarsi in contesti imprevedibili. Infatti è noto a tutti come spesso siano già solo i fraintendimenti alla base delle difficoltà di comunicazione: un pensiero incompleto emerge nella nostra mente, incontra il meccanismo di traduzione in parole che ce lo fa poi esprimere al meglio delle nostre possibilità, e dall’altra parte, nella testa del nostro Interlocutore, il dispositivo ricevente cercherà di dare un senso a quello che diciamo, pur collegando i diecimila significati delle nostre parole (e il modo in cui le diciamo) a chissà quali, inusitate, non-vissute, imprescindibili esperienze che fanno parte del vissuto dell’altro, e che noi perlopiù non conosciamo.
In realtà, in una buona comunicazione fra individui si arriva più o meno a capire se ci si è intesi. Col dialogo nasce il confronto, e dal confronto lo scambio: parlare ascoltando significa inevitabilmente allinearsi, ed eventualmente conoscersi, almeno nell’ambito dell’esperienza stessa del parlarsi, che diventa così quell’esperienza comune che avvicina.
Quando si scrive un post sul blog, o quando si pubblica un video per un vlog, tutto questo non avviene. Non c’è uno scambio immediato con qualcuno; c’è da confrontarsi con il tremendo potenziale del foglio bianco innanzitutto, e, solo in seguito, con il riscontro del Lettore, se vorrà lasciare un commento.
Nell’ottica del “metodo” (tutti giorni un piccolo cambiamento è la strada verso il grande cambiamento), scrivere sul proprio blog è soprattutto un esercizio di autoanalisi. Se si scrivesse con buona frequenza, cercando di focalizzarsi su alcune tematiche, quello scrivere diventerebbe allora una buona occasione per riflettere, discutere con sé stessi dei propri “punti fermi”, provare a stabilizzare le proprie opinioni barcollanti.

Un rantolo da vecchiardo.

Due o tre giorni fa devo proprio essermi svegliato male. Lo dico perché, preso dai miei malumori, l’unica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata quella di scrivere un post come se fossi improvvisamente diventato un settantenne. Ve lo mostro.
* * *
Alcune riflessioni da approfondire.
Giovani principesse senza regno e senza scopo, si lasciano vivere addosso tutto quello che è più basso, solamente perché è più diffuso. Senza una mente critica, perché non hanno avuto la fortuna di formarsela, ingoiano la minestra sciattamente, lamentandosi perché è fredda, pur trovandosi in cucina.
E ancora,
bambini, che necessitano di una cosa dolce, per affrontare tonnellate di cose amare, inconsapevolmente. Una goccia dolce, e un torrente amaro. La serena felicità di chi non ha mai alzato lo sguardo oltre il movimento dell’acqua, dove è tutto movimento, e non conosce la lenta fermezza delle rocce sotto. Le quali si scoprono sempre più vergini in asperità ad ogni nuova primavera. Una cosa dolce, e un torrente amaro.
E poi un volto coronato dal velo. Sono i simboli che creano l’identità? Oppure è l’identità ad eleggerli a vessillo? Oppure si tratta di necessità? Che si tratti di moda o di religione, di musica o di subcultura, questi giovani spendono la loro purezza in fretta per raggiungere al più presto lo status di figurine. Hanno imparato la volontà di avere una loro connotazione visibile, riconoscibile, e non sanno quanto invece sia necessario conservare la propria pelle pulita, i propri abiti modesti, il proprio atteggiamento pronto, e aperto, perché sia meno doloroso l’incedere inevitabile del cambiamento.

L’una meno tredici

Siamo saliti prima che cominciasse a piovere.

Senza fiato e senza voce, lassù.
Se mi avessero chiesto se ci credevo,
Speranza avrebbe risposto per me.
Siamo scesi prima che cominciasse a piovere.
Sento che mi parli, e sento di ascoltarti.
Se mi chiedessero cosa stessi aspettando,
Senza una parola abbraccerei l’intero mondo.

Timetable

Svegliarmi presto ultimamente mi costa parecchio.

Qualche tempo fa mi stavo abituando a svegliarmi alle 6. C’è stato un periodo durato diversi mesi, un paio di anni fa, in cui la mia routine quotidiana iniziava alle 5. In generale mi sveglio così presto solo quando devo essere in ufficio prima delle 8 dovendo partire da Carpenedolo. Non avendo io l’automobile, l’unico pullman per Brescia che mi permette di arrivare in orario al lavoro è quello di delle 6 meno 10… significa per me dover uscire di casa entro al massimo le 5:35 per non rischiare di perderlo!
Quando sto a Brescia è tutta un’altra storia. Per arrivare in tempo al lavoro mi basta uscire di casa alle 7. Dato che mi piace fare le cose con calma, punto la sveglia alle 6. Mi alzo, accendo la radio, faccio il caffè mentre ascolto l’opinione di Massimo Rocca su Radio Capital.
Un ritmo umano, pause e fraseggi che non scandiscono la vita, ma che me la fanno canticchiare.
Di strofa in strofa passano le stagioni. Sarà che la dieta è diversa, sarà che le giornate sono lunghe lunghe e piene di cose da fare. La mattina quando suona la sveglia la realtà che mi circonda è ancora tanto pregna del sogno appena interrotto che fatico a lasciarlo svanire. Chiudo gli occhi, mi canto quella ninna nanna che dice “ancora cinque minuti!”
E non è che un rigirarsi inutile, e allora tanto vale alzarsi, sciacquarsi la faccia, procedere: c’è da andare a prendere il pullman.