Un buon bicchiere di vino…

Non sono un esperto di vini, ma intuitivamente capisco se un vino mi piace oppure no.
Un po’ mi spaventa la faccia grave di chi se ne intende, mentre si concentra per capire le sensazioni che prova nell’assaggiare: troppa intensità in quei secondi di attesa prima del verdetto. “Mah, secondo me…”
Tranquillo, tranquillo. Non stai scrivendo una recensione, ti stai godendo un momento assolutamente soggettivo. Puoi dirmi “mi piace”, “non mi piace”, ma non tirarmi fuori che sa di acciuga o se profuma leggermente di erba di prato appena tagliato! Cerca invece di ricordarti che sei fra amici. Rilassati. E raccontami una storiella divertente.

Sabato scorso, 19 luglio, qui, ho assaggiato un po’ di vino che mi è piaciuto. C’è un tizio in Val Camonica che ha avuto il coraggio di fregarsene di quello che gli dicevano tutti, di quello che diceva il mercato. Nella sua Val Camonica, quella di suo padre, e di suo nonno, e, indietro fino a chissà quando e chissà chi, c’è una tipicità che non deve perdersi nel nome del rassicurante conformismo. Enrico ci ha messo coraggio, vita e gioventù per difendere e diffondere un vitigno che si chiama Erbanno, cercando di riportare alla responsabilità degli elementi e della fatica il potere di decidere cosa deve rimanere in essere, oppure no.

L’immagine della faccia di Sangiorgi mi dice che tutto questo si chiama sviluppo, e si attua nel lavoro, nella cura del territorio.

Guardo e annuso e assaggio il sangue di tutto questo, e secondo me è semplicemente buono.

Provate a guardare qui e qui.

Dallas Buyers Club

Qualche settimana fa sono andato a vedere, al cinema del quartiere in cui vivo, “Dallas Buyers Club”. Si tratta di un film basato sulla storia (vera) del signor Woodroof, un texano piuttosto libertino che ad un certo punto della sua vita contrae il virus dell’HIV durante i primi anni del fenomeno AIDS.
Devo ammettere che il film mi è piaciuto, soprattutto per l’attitudine positiva del personaggio che, messo di fronte a quella che lui considera un’assurda e ingiusta sentenza di morte certa, ha il coraggio di reagire in maniera opportunistica prima, e intelligente poi.
Vediamo Woodroof dapprima denigrare i medici per aver osato imporgli lo stigma del malato di AIDS (la sua conta di CD4 già bassissima alla diagnosi, in pratica un malato conclamato), malattia percepita come “la malattia dei froci”. Poi lo vediamo rendersi conto dei problemi della sua vita, soprattutto quello del fatto che gli resta pochissimo da vivere. Lo vediamo mentre prende farmaci (AZT) sottobanco grazie alla complicità di un infermiere messicano, vincendo — per disperazione — il suo iniziale disprezzo etnico; lo vediamo man mano cambiare, mentre cerca di comprendere la sua malattia e gli aspetti controversi della sua vita. Lo vediamo organizzare una rete di aiuto verso gli altri malati di AIDS che trova nell’ambiente in cui vive, per lo più omosessuali e tossicodipendenti, dimostrando di saper vincere i suoi pregiudizi. Forma quindi il club del titolo: un’associazione di persone che si spartiscono gli acquisti di proteine e vitamine per rinforzare il proprio sistema immunitario devastato dalla sindrome, andando contro le direttive della FDA.
Il film fa un parallelo tra la vicenda di Woodroof e il rodeo, la sua passione: il cowboy è calato sul toro, da dove non può più smontare, ormai. Non gli resta che aggrapparsi forte alla schiena della bestia, che liberata — cioè manifesta — salterà, e scalcerà, rendendo difficile domarla. Si tratta di una chiara metafora della convivenza con una malattia mortale che ti spinge a trovare il coraggio di vivere al meglio la vita che rimane.

Bella, ciao.

Questa mattina mi son svegliato, ma non ho detto “bella ciao”.
Ho trovato comunque l’invasor: un pensiero triste fra le pieghe delle lenzuola.
Sono sceso dal letto, mi sono messo al PC, a lavorare un po’. Ho sbirciato un poco Facebook, ogni tanto. Verso l’ora giusta sono andato in bagno, per fare quello che dovevo. Lavatomi i denti, mi son vestito e son partito.
Camminavo verso la fermata del bus, e non potevo scacciare dalla mente quel che ho trovato sul social network: le tue vecchie parole che non conoscevo, che hai scritto quando già non c’ero più. E questo mi ha fatto voglia di tirare fuori il tablet, mentre sono qui sul pullman per andare verso quest’ultima giornata della settimana lavorativa, per scrivere le mie solite scribacchiate. Penso ad alcune cose che crescono dentro di me, ai desideri e alle tensioni delle mie giornate, e, sì, penso ancora a te, in una versione cristallizzata, ideale e fantasiosa, che vorrei cancellare per lasciare posto ad una nuova conoscenza, più vera e profonda.
Sono pieno di dubbi e curiosità, e soprattutto sono il primo a chiedermi “perché”.
Perché, e come, dopo tutto questo tempo, e tutta questa vita?
Che senso hanno, il possibile, l’impossibile, il decente, o l’opportuno? Che senso ha la mia vita, in effetti? Non la sto denigrando: la mia è una vera domanda. Dove vado? Cosa ho vissuto finora? Perché, di nuovo?
E di nuovo aspetterò una risposta, che se non arriverà sarà comunque una risposta: tenterò di interpretare il silenzio e l’assenza di suoni, così come si contano le pause tra le frasi musicali.

Il pullman del ritorno

La giornata è finita.
Almeno quella lavorativa, che in realtà è terminata due ore fa: da buon pendolare ho da tempo acquisito la tipica pazienza di chi deve aspettare “la prossima coincidenza”. E così, per un ritardo di cinque minuti, ne guadagno un altro da un’ora, e trascorro l’attesa nella biglietteria della stazione. Ne ho mai parlato? Davvero è strano come si tenda a dare così per scontate le cose… è una comunissima biglietteria da stazione, con l’aria riscaldata, il tabellone degli orari, il fast-food. Consumo gli ultimi due euro che ho in tasca per comprare un involtino dal signor Domenico: wurstel di pollo, crauti, formaggio e qualche salsa. Giusto quello che ci vuole per soddisfare uno sfizio innaturale, causato dall’attesa e dalla visione della pizza al taglio. Mangio l’involtino, e decido che quaranta minuti sono un’eternità se si devono passare in piedi ad aspettare. E allora vado a sedermi. Gioco col tablet, un sudoku da un quarto d’ora, provo ad andare in Internet, ma la connessione è pessima. Una tipa si avvicina e mi chiede se le posso tenere occupato il posto che lei stessa ha già occupato con una borsina di plastica: deve allontanarsi perché vuole bere un caffè. Mi avvicino allora alla borsina, ma mi ferma sottolineando che è sufficiente che io dica a chi volesse sedersi che il posto è da considerarsi occupato. Le dico che va bene mentre va alla macchinetta per prendersi il caffè. Esco dalla biglietteria quando ritorna, mancano pochi minuti al bus delle 18 per Carpenedolo. Si è radunata un po’ di gente attorno al 33, una giovane coppia si scambia sfacciatamente qualche sonoro bacio, e mi sembra di captare qualche segno di insofferenza da parte degli astanti. Nessuno protesta, e loro sono al centro del loro mondo… un po’ li invidio. Tante facce guardano ovunque, in questa attesa forzata. Guardano il bus vuoto, buio. Guardano lo schermo con gli orari delle prossime partenze, anche se segna l’ora con qualche minuto di anticipo. Guardano l’aria davanti a sé, guardano i passanti, guardano me. Guardano per terra, guardano in tasca, altri hanno gli occhi chiusi. Sonnecchiano.
Finalmente arriva l’autista, che accende il bus. Si sale, si prende posto. Scelgo di sedermi dietro la brunetta magra magra, un po’ strabica e nervosa, ma carina. So che non le rivolgerei mai la parola, ma provo ad immaginarmi qualche scena da film. E in effetti accade una scena da film: sopraggiunge uno degli anziani più sudati e puzzolenti in cui mi sia mai capitato di imbattermi, che le si vuole sedere accanto. Come una gatta disturbata nel sonno o nel gioco, questa prende e balza nei posti singoli qualche fila più avanti. “Addio”, penso, ma la mia mente si riempie ben presto dell’allarme proveniente dalle mie narici: il vecchio puzza di rancido in maniera insopportabile! Mi sposto, e mi tocca sedermi di spalle rispetto al senso di marcia in uno di quei posti da quattro, costretto a fronteggiare le estroverse effusioni dei due giovani innamorati. Cerco di non guardarli, posando l’atteggiamento più assorto del mondo mentre direziono il mio sguardo fuori dal finestrino; ma non c’è niente da guardare, il pullman è fermo! Partiremo a breve. Non mi resta che una possibilità.
Scrivo, non sapendo cosa fare di meglio, e non potendo leggere (qui dietro l’autista non ha voluto le luci accese, vai a sapere perché); mentre la strada scorre, le mie dita danzano sulla tastiera al ritmo dei miei pensieri. Un ritmo cullato dalle fermate e dalle ripartenze, dal canto del motore che spinge, e spinge, e spinge verso casa, verso la vita, o verso l’oblio, una ventina di sconosciuti della stessa risma. La ninna-nanna urbana è una poesia di gusci concentrici, sfiati, e “ding!” degli scampanii estemporanei; i seggiolini fremono in tutta la loro rigidità di plastica alle mutevoli direzionalità delle vibrazioni causate dall’incedere-nonostante-tutto. È una festa galoppante l’aumento dei giri ad ogni accelerata, è una particolare danza quella delle nostre teste ciondolanti.
Dal finestino scintillano le luci della sera mentre scìano via veloci: sono loro a dirmi in tutta fretta che finalmente io ritorno a casa.

Una domenica

“Chissà…”
Gli alberi lì attorno, freddi e bagnati al punto da sembrare appena dipinti, gettavano una penombra sfumata, breve e sferica. La messa era finita almeno un’ora prima: e da lassù potevano scorgere il brulicare dei paesani distribuirsi nelle minuscole vie del centro, entro cui si sprecavano, nella rilassata atmosfera di una ordinaria domenica invernale, i vani tentativi delle occasionali automobili di farsi strada tra la gente.
Là in alto, al di sopra dei riti e dei programmi per la giornata, loro due non riuscivano nemmeno a guardarsi: stavano a parlarsi addosso, fianco a fianco. Le loro parole uscivano dalla bocca solo per disperdersi nell’aria circostante: batuffoli di vapore nella nebbia, e nulla più. Parole di zucchero filato buone solo per i rari passanti, capaci solo di additarli mentalmente, come si fa con les jeunes qui s’aiment: quelle parole effimere non facevano che scandire il ritmo di discorsi altri, gli stessi che, non detti, smettevano ora il loro antico riserbo, e finalmente comunicavano alla velocità dell’occhio le cose che, dentro, da sempre, vibravano le verità più forti.
Scese lo sguardo, salendo dalle vie del centro là sotto, alle mani là sopra: dita che trovavano altre dita, e la sensazione di calzare il guanto perfetto (per quanto si possa calzare un guanto). Così facile? Vivere tutti quegli anni, sfidando il freddo con le sole, nude mani, e di colpo afferrare la primavera e le sue promesse.
Salì lo sguardo, scendendo nelle infinite vie del cerchio, vedendosi visto: la conclusione del prossimo respiro iniziava la reciproca apnea. E chissà…
“Chissà…”, pensava, quando le campane iniziarono a suonare, solo per trovarsi infine a dire: «chissà se baciarsi di domenica è un peccato o una benedizione».