Orange Road

Ho dovuto riscrivere questo post, perché la prima volta mi si è cancellato.
È stato abbastanza frustrante, lo ammetto, ma almeno ho potuto rielaborarlo.
Riguardava il fatto che sto vivendo giorni di attesa: senza scendere in dettagli, sto aspettando che si verifichino le condizioni che dovrebbero portare cambiamenti positivi, e non, nella mia vita. Ne parlerò sicuramente e più in dettaglio a cose fatte; per il momento mi limito a registrare questi giorni carichi di paziente tensione!
Sarà poi che è estate, che la gente appare diversa. Che molti vanno via, che c’è nell’aria una costante sensazione di preparazione e nostalgia, di posti che si andranno a vedere, o dai quali si è tornati. La pausa estiva, il chiudersi della continuità di un anno di lavoro scivolato attraverso la serenità piovosa e rassegnata dell’autunno, l’operoso inverno, la produttiva primavera.
L’estate non è tempo di bilanci, ma la rilassatezza che la caratterizza è quella di chi sa che presto ritornerà un altro ciclo di crescita. A me forse questo fa tornare alla mente i bei tempi della scuola, legati indissolubilmente alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, che in un certo senso permangono in me in certe mie peculiarità o carenze. Con questo atteggiamento di spirito sto affrontando la visione (rigorosamente al ritmo di una puntata al giorno) di un vecchio anime: Kimagure Orange Road.
La versione che sto guardando è l’ultima della Dynit, e non ha niente da spartire con il vecchio adattamento televisivo che tutti ricordano col titolo È Quasi Magia Johnny. Giusto ieri pensavo, assistendo alle tormentate vicende di Kyosuke (Johnny), che è straordinario come nella sua semplicità un cartone animato sia in grado di farmi rievocare le sensazioni dell’adolescenza.
Ma magari è solo l’estate, oppure le ansie e le aspettative di oggi hanno trovato un terreno fertile sul quale germogliare, in un frutteto di emozioni e sensazioni.

Il Foglio Bianco

Scrivere sul proprio blog può essere piuttosto difficoltoso. Lo dico perché per me è così: ogni volta che mi siedo con la ferma e precisa intenzione di vergare un post, la mia mente decide di prendersi una vacanza, e lasciarmi lì, davanti al “foglio bianco”.
Il foglio bianco è come un bel paesaggio innevato: si finisce col convincersi che va già bene così, vuoto, puro, pieno di positivo potenziale.
Le parole scritte sono più rischiose. Una volta che le hai disposte devi solo sperare che la loro geometria sia abbastanza solida per non deformarsi in contesti imprevedibili. Infatti è noto a tutti come spesso siano già solo i fraintendimenti alla base delle difficoltà di comunicazione: un pensiero incompleto emerge nella nostra mente, incontra il meccanismo di traduzione in parole che ce lo fa poi esprimere al meglio delle nostre possibilità, e dall’altra parte, nella testa del nostro Interlocutore, il dispositivo ricevente cercherà di dare un senso a quello che diciamo, pur collegando i diecimila significati delle nostre parole (e il modo in cui le diciamo) a chissà quali, inusitate, non-vissute, imprescindibili esperienze che fanno parte del vissuto dell’altro, e che noi perlopiù non conosciamo.
In realtà, in una buona comunicazione fra individui si arriva più o meno a capire se ci si è intesi. Col dialogo nasce il confronto, e dal confronto lo scambio: parlare ascoltando significa inevitabilmente allinearsi, ed eventualmente conoscersi, almeno nell’ambito dell’esperienza stessa del parlarsi, che diventa così quell’esperienza comune che avvicina.
Quando si scrive un post sul blog, o quando si pubblica un video per un vlog, tutto questo non avviene. Non c’è uno scambio immediato con qualcuno; c’è da confrontarsi con il tremendo potenziale del foglio bianco innanzitutto, e, solo in seguito, con il riscontro del Lettore, se vorrà lasciare un commento.
Nell’ottica del “metodo” (tutti giorni un piccolo cambiamento è la strada verso il grande cambiamento), scrivere sul proprio blog è soprattutto un esercizio di autoanalisi. Se si scrivesse con buona frequenza, cercando di focalizzarsi su alcune tematiche, quello scrivere diventerebbe allora una buona occasione per riflettere, discutere con sé stessi dei propri “punti fermi”, provare a stabilizzare le proprie opinioni barcollanti.

Un rantolo da vecchiardo.

Due o tre giorni fa devo proprio essermi svegliato male. Lo dico perché, preso dai miei malumori, l’unica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata quella di scrivere un post come se fossi improvvisamente diventato un settantenne. Ve lo mostro.
* * *
Alcune riflessioni da approfondire.
Giovani principesse senza regno e senza scopo, si lasciano vivere addosso tutto quello che è più basso, solamente perché è più diffuso. Senza una mente critica, perché non hanno avuto la fortuna di formarsela, ingoiano la minestra sciattamente, lamentandosi perché è fredda, pur trovandosi in cucina.
E ancora,
bambini, che necessitano di una cosa dolce, per affrontare tonnellate di cose amare, inconsapevolmente. Una goccia dolce, e un torrente amaro. La serena felicità di chi non ha mai alzato lo sguardo oltre il movimento dell’acqua, dove è tutto movimento, e non conosce la lenta fermezza delle rocce sotto. Le quali si scoprono sempre più vergini in asperità ad ogni nuova primavera. Una cosa dolce, e un torrente amaro.
E poi un volto coronato dal velo. Sono i simboli che creano l’identità? Oppure è l’identità ad eleggerli a vessillo? Oppure si tratta di necessità? Che si tratti di moda o di religione, di musica o di subcultura, questi giovani spendono la loro purezza in fretta per raggiungere al più presto lo status di figurine. Hanno imparato la volontà di avere una loro connotazione visibile, riconoscibile, e non sanno quanto invece sia necessario conservare la propria pelle pulita, i propri abiti modesti, il proprio atteggiamento pronto, e aperto, perché sia meno doloroso l’incedere inevitabile del cambiamento.

L’una meno tredici

Siamo saliti prima che cominciasse a piovere.

Senza fiato e senza voce, lassù.
Se mi avessero chiesto se ci credevo,
Speranza avrebbe risposto per me.
Siamo scesi prima che cominciasse a piovere.
Sento che mi parli, e sento di ascoltarti.
Se mi chiedessero cosa stessi aspettando,
Senza una parola abbraccerei l’intero mondo.

Timetable

Svegliarmi presto ultimamente mi costa parecchio.

Qualche tempo fa mi stavo abituando a svegliarmi alle 6. C’è stato un periodo durato diversi mesi, un paio di anni fa, in cui la mia routine quotidiana iniziava alle 5. In generale mi sveglio così presto solo quando devo essere in ufficio prima delle 8 dovendo partire da Carpenedolo. Non avendo io l’automobile, l’unico pullman per Brescia che mi permette di arrivare in orario al lavoro è quello di delle 6 meno 10… significa per me dover uscire di casa entro al massimo le 5:35 per non rischiare di perderlo!
Quando sto a Brescia è tutta un’altra storia. Per arrivare in tempo al lavoro mi basta uscire di casa alle 7. Dato che mi piace fare le cose con calma, punto la sveglia alle 6. Mi alzo, accendo la radio, faccio il caffè mentre ascolto l’opinione di Massimo Rocca su Radio Capital.
Un ritmo umano, pause e fraseggi che non scandiscono la vita, ma che me la fanno canticchiare.
Di strofa in strofa passano le stagioni. Sarà che la dieta è diversa, sarà che le giornate sono lunghe lunghe e piene di cose da fare. La mattina quando suona la sveglia la realtà che mi circonda è ancora tanto pregna del sogno appena interrotto che fatico a lasciarlo svanire. Chiudo gli occhi, mi canto quella ninna nanna che dice “ancora cinque minuti!”
E non è che un rigirarsi inutile, e allora tanto vale alzarsi, sciacquarsi la faccia, procedere: c’è da andare a prendere il pullman.