Sentendone il bisogno

Chi sei?

Tu, dietro ad un bancone, o con un vestito a fiori dentro una coincidenza magnifica; tu, anche quando non ci sei: che cos’hai, in te?

Sei d’ottone, e risuoni un richiamo caldo, rotondo. E mi si spande il cuore, lo sai? Lo credevo stretto in strutture d’ossa e rimpianti; guardalo ora, invece! Guardalo, sentilo sorridere – per te.

E ti penso spesso, anche. Mi scopro immaginarti, mi immagino parlarti, accompagnarti dentro incanti, dentro giorni di sciarpe e macchine sotto la pioggia, giorni di mani e tensioni, di pulizie e preparativi, faccende, tavoli e abbracci. Specchi, porte. Secchi, lenzuola, dischi, inceppamenti, traffico e soldi.

Mi sdraierei e ti ascolterei parlare, e ti darei anche le mie parole, e i guizzi dietro ai miei occhi. Ti darei il mio futuro, il mio corpo, le mie mani, la mia faccia, le mie fatiche, i miei problemi, la mia forza, le mie paure. Mi confonderei con te dentro un abbraccio, dentro un pronome, un avverbio, un suono che non sia una nomea che delinea il confine fra tu e io. Litigheremmo per un piatto sporco, sorrideremmo dopo aver fatto l’amore, inizieremmo tutta una nuova generazione di persone spettacolari e deludenti.

Ci separeremmo, e ci rivedremmo poi.

Tempus fugit

Ehi! Ma dove se ne va a finire tutto il tempo?
Sarà che su ventiquattr’ore di una giornata ne passo più di sedici fra sonno e lavoro, mentre le restanti vengono assorbite fra tutte quelle azioni da un minuto almeno, che però se le metti assieme …ti portano al domani. Le ore scorrono, scivolano via. I minuti, ah, i minuti sono micidiali. Se te ne servono cinque, a tre sei già in fibrillazione perché stanno finendo. Conta, conta fino a 300. Cinque minuti. La verità è che non è il tempo ad essere troppo poco: sono le cose da fare ad aver bisogno di un ridimensionamento. Da qui, la scelta. Vivere una vita più lenta non significa fare le cose con calma, senza fibra, flemmaticamente. Significa soppesare le proprie possibilità, ammettere anche di “non potercela fare”. E regalarsi così il tempo di “fare meglio”, anziché “fare di più”.

Post senza capo, né coda, ma con un certo spirito

“Ma che hai?!”
No, niente, niente… figurati! Non sono né triste, né felice. Mi sento strano, e non sono preoccupato di come mi sento. Assolutamente.

Ieri sera è stata una di quelle serate che sarebbe potuto succedere di tutto, se vivessi in un film.
Che poi io sono convinto di vivere in un film. Certe volte mi succedono cose totali; totalizzanti, come dico io. Vabbè.

Comunque alla fine sono tornato a dormire, come sempre ho chiuso gli occhi, steso sul letto, la testa NEL cuscino. Come dire: la parentesi la devi chiudere. Per questa impossibile continuità, per questo incessante, scandito, obbligo a ritornare, per questo procedere di giorno in giorno, e le notti in mezzo, il tempo sembra correre troppo velocemente, sperso in frammenti troppo brevi. L’azione si interrompe, restano le intenzioni, i pensieri, i sogni, le sensazioni, i desideri, le parole zittite.

E questo è un blog; già, e io stavo cercando di ricordare il mio ieri; scusate se mi perdo nelle riflessioni, di tanto in tanto.

Ho assistito alla presentazione di un libro. È la prima volta che assistevo alla presentazione di un libro, credo. Devo averlo fatto forse a scuola, ma non conta. Lì non vuoi veramente andarci, e poi non è mai niente di personale. Poi devi relazionare, riportare, essere giudicato.

Comunque.

Ero là che ascoltavo (un po’ svaccato su certi cuscini – disposti cromaticamente con un preciso ordine di beige, marrone, rosso e arancio) i tentativi di intervista a questo giovane scrittore, con il quale ho sentito, fin da subito, una forte vicinanza, un senso di condivisione d’idee.
Ho comprato il libro, figuratevi. Stamattina non ho potuto che leggerne poche pagine, e finora quello che ho letto mi è piaciuto molto. Se non fosse che tra poco dovrò aprire una parentesi (che spero di chiudere subito) lo leggerei …tutto d’un fiato. Capacissimo di farlo, eh.

E niente, poi che fu? Dopo la presentazione del libro, e poche chiacchiere con lo scrittore, ho potuto, in loco, avere certi scambi di pensiero con un poeta ex chitarrista, e con un NOTEVOLE batterista. Tre incontri, capite? Tre incontri che mi hanno lasciato un segno, molto forte, nei ricordi e nella sensazioni, perché senza fare domande ho ricevuto gratuitamente delle risposte. Delle risposte che cercavo da un po’, e sebbene non fossero le uniche, diciamo che mi riguardano per adesso.

Coincidenze, caso. Reminescenze. Quando poi la gente è arrivata in massa, me ne sono andato.
Sono tornato in Bastiglia – che se non sapete cos’è e cosa rappresenta per me, beh, credo che lo scoprirete leggendomi, in futuro – (s)travolto dagli eventi, dove poco dopo mi è stata posta una scelta, andare o rimanere. Chissà cosa sarebbe successo se fossi andato.

Rimasi, se non altro per l’amico, se non altro per il legno della panca, per la sensazione da fine serata. Per quanto fosse relativamente presto.
Bevvi una birra, si aggiunse un altro amico.
Sapete come va a finire, certe sere che ti sembra che stia per succedere qualunque cosa. Non accade mai nulla, eppure i legami si fanno in un certo senso più forti, non so.
Qualche chiacchiera, le risate.

Buonanotte, ci vediamo domani.

Flussi e riflussi

Stamattina mi sento un po’ un idiota. Oddio, “stamattina”; oramai non manca molto a mezzogiorno. Non riesco a combinare nulla di buono, troppe cose da fare iniziate tutte assieme.

Ieri ho trascorso la serata in balia delle emozioni: stanchezza nell’immediato dopo-lavoro, frustrazione per non essere riuscito a stampare quel reticolato di triangoli per l’origami modulare che ho in mente di mettere assieme; una punta di serenità, più tardi, in casa di Carlo, piena di “famigliarità”, con la piccola Emma che saltella in giro facendo versi, e il caffè sul divano dopo cena, e Carlo che si veste, che si prepara per uscire, e le battute dei suoi, eccetera. E ancora: la voglia di tornare a casa, prepararmi per uscire nuovamente, cercando di incontrarla. Tristezza per la percepita delusione di mamma, che mi ha visto arrivare per andare via subito. Fastidio nel constatare che i miei amici non volevano saperne di star lì, e solo adesso posso capire: che te ne fai di uno che è dall’altra parte d’un vetro?

Peccato ora non poter essere più chiaro: forse in futuro potrò scrivere con più tranquillità delle cose che mi succedono. Per ora semplicemente non posso, non me la sento, forse tutto ciò fa parte del processo di recupero del mio cuore, non so. Del mio cuore, della mia Anima, della mia trasparenza, onestà; che ora ho perso, e che posso solo sentire vibrare nel buio.

Tornando alla serata: delusione, profonda delusione per i miei amici, incapaci di superare i pregiudizi, incapaci di assaporare cose nuove, in questo caso della musica particolare in radio. Fors’è che le loro aspettative si sono sedimentate sotto la loro disillusione? Eppure le idee le hanno, eppure i sogni li hanno, i progetti li sanno fare. Hanno anche imparato che il sasso cade, hanno imparato ciò che si deve dire nel momento adatto, alla persona giusta. Allungano le mani nei vuoti che hanno creato attorno a loro?

Ancora, ancora: fastidio, per la calca di gente al Tango, locale non lontano da dove sto, ma comunque troppo, molto più lontano da dove mi trovavo prima, da dove volevo continuare a stare.

“Se desiderate essere con qualcuno, forse non ci siete già?”

Eppure non ho rifiutato lo strano gioco di sguardi con la sconosciuta all’altro angolo del bancone; eppure fissavo la gente negli occhi, pur evitando i contatti, cercando in ogni caso di confondermi nei colori diversi, nelle frequenze confuse della musica, dei rumori, delle conversazioni. Sollievo, nell’andarmene da lì, dispiacere, nel rendermi conto in una frazione di secondo che i miei amici, in un momento, non sono stati che forzati compagni di viaggio, dentro una serata per lo più deludente, per loro, immagino.

Silenzioso e vincitore muovo i miei passi nel cunicolo semi-buio, nello spiazzo bagnato dalla pioggia ancora cadente, su quel marciapiede troppo alto, dentro un posto che non era mai esistito, e che ora ha tutto un suo significato. E lei è lì, vestita come prima, con i capelli raccolti come prima, con la sua pelle chiara come prima, e fuori ci sono buio, nuvole, notte, pioggia e una luna nascosta, stelle a grappoli rifugiate chissà dove, e io non riesco a percepire nulla di tutto questo. Un solo pensiero, lei, e già ho paura che sia di nuovo una mia ossessione travestita da cuore, che non sia che un capriccio camuffato da vero sentimento, che la delusione mi piomberà addosso, trascinandomi ancora più giù, lontano prima di tutto da lei, e così anche dagli altri. Solo.

Stanco, assetato, prendo una birra, mi siedo. Sono a disagio, lei è presa dai clienti, non posso disturbarla. Ho in tasca un DVD, il regalo “gratuito” che le avevo promesso in un messaggio che non so nemmeno se ha avuto il tempo di leggere. Mi siedo, la guardo per pochi millisecondi ogni tanto, per non attirare troppo la sua attenzione. Non voglio disturbarla. Quando i nostri sguardi si incontrano mi scappa qualche ammiccamento; mi sento un idiota, un idiota fra i tanti che potrebbe avere incontrato prima di me. La disillusione prima di una conoscenza più alta, vera.

Prendo un libro, esco da questo mondo. Sono disperato, poi calmo, poi incuriosito, poi in tensione, poi a disagio, poi confuso, poi spaventato, poi agitato. Finisco il libro, il locale ora è praticamente deserto; oltre a me ci sono due clienti, quel ragazzo che sospetto essere suo fratello (ma non chiedetemi perché), sua madre e lei. Ancora troppe persone. Ripongo il libro, le ultime pagine ho faticato a leggerle, ero distratto dal suo continuo muoversi nelle mie vicinanze e dal mio dissimulare.

“Hai già finito il libro?” Sì, beh, poche pagine. Come mi è sembrato? Beh, bello, mi sono spaventato, funziona. “Sei spaventato?” Non capisco molto bene, fatico a sentire quello che mi dice, oppure, boh, sono sopraffatto dal tilt emotivo. Le chiedo se si riferisse al libro che ho preso in prestito qualche giorno fa; no, parlava proprio di quello che avevo appena terminato. Sì, sì, è spaventoso. Particolare. Cioè, è …folle. Insomma, funziona. Ecco.

Scivolo via, scendo, vado in bagno.

Maledetta luce. Continua a spegnersi. Sono riflesso tre volte nello specchio ad angolo sopra il lavandino. Mi guardo, non capisco come mi possa vedere, percepire. Fade out.

Fade in. Continuo a sentirmi sempre un idiota, traggo respiri profondi, esco dai due locali del bagno, torno su.

Non c’è più nessuno, sono l’ultimo. Mi serve tempo, l’occasione giusta. Chiedo molto cortesemente un caffè, questi sono gentili, me lo fanno. Lei mette a posto volantini, riviste, le do le spalle. Bevo il caffè, ho le mani che tremano! Metto la mano in tasca, ci metto secondi dilatati per arrivare alla cassa. Sono patetico, pago “una birra e un caffè”. Terza volta? No, stavolta pago. Siamo rimasti solo in tre, nel locale. Sono passate le due. Devo dire la mia battuta. Non so se ha letto il messaggio. Non voglio provare a chiedere se l’ha fatto. Cerco di spendere meno parole possibili. Penso di andarmene, mi direziono verso di lei, più che verso la porta. Il “fratello” è diventato una comparsa.

C’è una regola dei 180° fra me e lei, ora. Estraggo il DVD dalla tasca. Lo agito in aria, chissà che faccia ho. Glielo porgo. Lei si trova per le mani questo DVD con su scritto “Disco gratis!” e dei titoli. Lì per lì sembra non capire. Sento di non avere il tempo di spiegarle la faccenda del titolo, mi sento inopportuno. Le spiego che si tratta di un DVD con sopra tre film carini. Qualche ora prima pensavo di fare un discorso più esplicativo, dirle che avevo riflettuto sulla faccenda della capacità di accettare dei regali, che in effetti per me era un concetto dimenticato, più che inedito. Potevo anche dirle che da qualche mese mi ero gettato a capofitto nei film, che ne sto scaricando a dozzine. Che questi tre in particolare rappresentano per me delle nuove linee guida per la vita, riaffermazioni di un me ancora forse in grado di piacere, ancora forse in grado di sentire, ancora autentico e colorato, e non reso grigio dalle delusioni, dalla vita insolente, dalla negazione dei propri istinti. Non la guardo mai, vedo solo questo piccolo dono e le mani, nei miei ricordi non riescono a fissarsi molto le sue espressioni, a parte forse quei suoi occhi nei quali cerco un po’ di comprensione, un appiglio, del respiro. Un volto intero non riesco a sostenerlo, devo rifugiarmi nelle forme astratte di cerchi bianchi, colorati, neri. Bulbi che catturano e conducono, di per loro non hanno una vera personalità.

Saluto tutti, do la buonanotte.
Esco, sono nel piazzale. Pioviggina?

Lei e la serata sono diventati il mio passato, ora ho il cervello vuoto, sono molto ricettivo. Inspiro ed espiro aria e spazio, luci e il cono d’ombra terrestre, che per un attimo mi appare per quello che è: la quotidiana, totale, eclisse solare alla quale nessuno sembra più voler far caso. Dal giallo sto passando al grigio verdastro, bluastro, ci sono nuvole meno nere della notte, c’è qualcosa che illumina, molto. Un bagliore come di lampo congelato, è la luna, ma ancora è un alone di luce, un batuffolo di cotone, d’argento e di platino. Mi godo questo spettacolo di vento, rumori, silenzi, gente che dorme, e frenesia ancora per qualche secondo. Poi sono al volante, la macchina messa in moto, il parcheggio, le case, i lampioni che scivolano via.

Eccola.
La luna.
Piena, chiara. Claire de Lune.
Sono certo che significa qualcosa.

E chissà come, poi, mi viene in mente che Galileo Galilei chiamava “mària” le zone d’ombra della nostra luna.

Mària d’una chiara luna.

Io mi astengo

Lo sciopero della mia vita continua, e ieri non ho voluto partecipare, né lo farò oggi, alla scelta collettiva di un nuovo governo. Non mi interessa. Forse sono rimasto nauseato dalla propaganda. Sentendo la radio, comunque, ho sentito che tanti han fatto come me. E molti di quelli che sono andati, hanno invalidato (consapevolmente oppure no) la propria scheda, il proprio voto.
La democrazia indiretta mi piace sempre meno, trovo la rappresentanza tanto comoda quanto deleteria al nostro senso civico.