Un tranquillo week end di paura: domenica bestiale (prima)

Sapete, mi dicono che l’ho scampata bella.

Fu la mattina di domenica scorsa, di rientro da una notte brava trascorsa nel vento del lungolago desenzanese.
Stava giusto per finire una maratona di veglia in corso da qualcosa di più di ventiquattr’ore, quando scesi da quella macchina lunga e nera. Salutai battendo vivacemente le nocche sul vetro della portiera, e me ne allontanai ciondolando, trascinando i miei passi nella zona pedonale, quindi su, e su, fin dentro la mia camera, zaino in spalla e chitarra.

Dormii un poco, giusto un paio d’ore, e non ne potevo già più.
Con un filmaccio in televisione presi ad assemblare un origami modulare.

Mi telefonarono per dirmi che gli stessi amici che avevo da poco salutato, ora si trovavano in ospedale.

“È uno scherzo, vero?”

No, erano davvero in ospedale. Quella stessa Mercedes nera che mi aveva portato fino a casa ora era ridotta ad un cumulo di rottami e lamiere deformi, vetri rotti e tubi, trasmissioni, fodere, bottiglie, carte, terra, sporco, benzina sparsa, olii, acqua, cenere. E, grazie a Dio, nessuna vita spezzata.

Giusto spavento, rabbia, delusioni.
Al guidatore, niente patente per un anno, all’altro un piede rotto. Per entrambi, tagli e botte.

Tutti quanti noi siamo stati rimproverati.

Perché, ci chiesero, stare fuori fino al giorno dopo?
Perché, stanchi e travolti, rimettersi al volante, rischiare la vita per la strada, per l’orario, per la (ir)responsabilità?

Cosa sarebbe stato peggio, in fondo? La preoccupazione, o il ritorno incolume?

Oh, ma quella notte…

Arrivederci!

Ma non potevamo fare a meno di incontrarci alla stazione delle nostre vite?

Mettiamo che ci fossimo conosciuti ad un incrocio: avrei scelto la tua strada! E invece siamo fermi nello stesso posto; ma non “stiamo”: transitiamo. Dallo stesso punto, questo è il problema; due destinazioni e due tempi di arrivo diversi. E tu partita da chissà quando.

Però un po’ mi hai sorriso, e un po’ mi hai sbirciato. E anche se non ce lo siamo mai detti, seduti a due scompartimenti di distanza, incrociandoci fra le file dei seggiolini occupati da uomini e donne normali, giusti, sbagliate, indelebili, ci siamo bisbigliati un appuntamento, senza afferrare di preciso se, come, dove, quando. Ci basterebbe svegliarci una mattina qualsiasi, prendere il telefono, uscire, recarci in un qualunque direzione; ascoltandoci seguiremmo le indicazioni verso l’un l’altra. E non ci sarebbe niente da chiedersi, niente da trovare, cercare, capire.
Saremmo, staremmo; ma per ora: arrivederci.

E grazie.

Desiderato “se”…

Sono andati via tutti quanti, hanno lasciato qui le luci accese e le orecchie ronzanti, la stanchezza, gli appunti mentali per l’indomani.

Libero il tavolo da quelle ultime due o tre cose, levo le briciole, le coppette, le forchettine; gli stuzzicadenti infilzati nelle molliche di pane, sparsi qui e là su un campo come di battaglia minato da macchie di vino e sughi.

Mi volto verso il citofono, ma non suona.
Eppure dovresti essere quasi qui, mi hai fatto uno squillo prima, segno che stavi partendo.
Mi volto ancora: niente.

Spengo le luci in cucina. Cammino lento, mi sdraio comodo sul letto, e poi accendo la lampada. Non credo che staremo qui, poi, quando arriverai. Guardo come ho sistemato i libri, penso come sarà la stanza quando ne ridipingerò le pareti…

Il cellulare sta suonando. Lo raggiungo, ha smesso: uno squillo. Tu. E come in una festosa sequenza, il citofono! Uno zompo e son lì a dire “chi è?”, ma è inutile: ti ho già aperto la porta. Un giro di chiave, socchiudo, esco con la mano per accenderti la luce delle scale. Sto in piedi, tenendo la maniglia; apro davvero quando sento i tuoi passi. Sorrido al tuo sorriso, mi scosto per farti entrare, e quasi sussurro un “ciao!”.

Abbiamo lasciato qualcosa per te, “che bevi?”.

E poi siamo sul divano, illuminati dal solo schermo. Gusti la pizza fredda e la fetta di torta come se fossero ambrosia; quel che sorride di più, in te, sono gli occhi. E restiamo, così, istupiditi e fermi dalle circostanze, chiedendoci che ci facciamo lì, quando finirà la bravata, come potremmo fare a scioglierci.
E sapremmo che basterebbe un solo sguardo, e l’avvicinarsi delle mani…

Stiamo lavorando per voi

Uno dei prossimi fine settimana dovrò mettermi di buona lena e finire di sistemare due o tre cosucce in casa mia… anzitutto DIPINGERE DI ROSSO (!!!) il mio studio, e dare una rinfrescatina anche al giallo della mia stanza. La voglio più gialla, adesso è un po’ sbiadita (prima era azzurra/verde, un colore orribile). Dovrò nuovamente armarmi di trapano per ridisporre le mensole, e di stucco per coprire i futuri vecchi buchi. In seguito dovrei reinstallare un po’ di prese della corrente, perché sono ancora quelle vecchie da 10A, far correre un filo attorno ad una porta, ridisporre anche i ripiani degli scaffali in garage, rimettere in sesto la mia vecchia bicicletta, riparare una serratura, riappendere un po’ di quadri.
Quanto vorrei avere dei fratelli, in situazioni come questa! ^_^