Libero il tavolo da quelle ultime due o tre cose, levo le briciole, le coppette, le forchettine; gli stuzzicadenti infilzati nelle molliche di pane, sparsi qui e là su un campo come di battaglia minato da macchie di vino e sughi.
Mi volto verso il citofono, ma non suona.
Eppure dovresti essere quasi qui, mi hai fatto uno squillo prima, segno che stavi partendo.
Mi volto ancora: niente.
Spengo le luci in cucina. Cammino lento, mi sdraio comodo sul letto, e poi accendo la lampada. Non credo che staremo qui, poi, quando arriverai. Guardo come ho sistemato i libri, penso come sarà la stanza quando ne ridipingerò le pareti…
Il cellulare sta suonando. Lo raggiungo, ha smesso: uno squillo. Tu. E come in una festosa sequenza, il citofono! Uno zompo e son lì a dire “chi è?”, ma è inutile: ti ho già aperto la porta. Un giro di chiave, socchiudo, esco con la mano per accenderti la luce delle scale. Sto in piedi, tenendo la maniglia; apro davvero quando sento i tuoi passi. Sorrido al tuo sorriso, mi scosto per farti entrare, e quasi sussurro un “ciao!”.
Abbiamo lasciato qualcosa per te, “che bevi?”.
E poi siamo sul divano, illuminati dal solo schermo. Gusti la pizza fredda e la fetta di torta come se fossero ambrosia; quel che sorride di più, in te, sono gli occhi. E restiamo, così, istupiditi e fermi dalle circostanze, chiedendoci che ci facciamo lì, quando finirà la bravata, come potremmo fare a scioglierci.
E sapremmo che basterebbe un solo sguardo, e l’avvicinarsi delle mani…