La giornata è finita.
Almeno quella lavorativa, che in realtà è terminata due ore fa: da buon pendolare ho da tempo acquisito la tipica pazienza di chi deve aspettare “la prossima coincidenza”. E così, per un ritardo di cinque minuti, ne guadagno un altro da un’ora, e trascorro l’attesa nella biglietteria della stazione. Ne ho mai parlato? Davvero è strano come si tenda a dare così per scontate le cose… è una comunissima biglietteria da stazione, con l’aria riscaldata, il tabellone degli orari, il fast-food. Consumo gli ultimi due euro che ho in tasca per comprare un involtino dal signor Domenico: wurstel di pollo, crauti, formaggio e qualche salsa. Giusto quello che ci vuole per soddisfare uno sfizio innaturale, causato dall’attesa e dalla visione della pizza al taglio. Mangio l’involtino, e decido che quaranta minuti sono un’eternità se si devono passare in piedi ad aspettare. E allora vado a sedermi. Gioco col tablet, un sudoku da un quarto d’ora, provo ad andare in Internet, ma la connessione è pessima. Una tipa si avvicina e mi chiede se le posso tenere occupato il posto che lei stessa ha già occupato con una borsina di plastica: deve allontanarsi perché vuole bere un caffè. Mi avvicino allora alla borsina, ma mi ferma sottolineando che è sufficiente che io dica a chi volesse sedersi che il posto è da considerarsi occupato. Le dico che va bene mentre va alla macchinetta per prendersi il caffè. Esco dalla biglietteria quando ritorna, mancano pochi minuti al bus delle 18 per Carpenedolo. Si è radunata un po’ di gente attorno al 33, una giovane coppia si scambia sfacciatamente qualche sonoro bacio, e mi sembra di captare qualche segno di insofferenza da parte degli astanti. Nessuno protesta, e loro sono al centro del loro mondo… un po’ li invidio. Tante facce guardano ovunque, in questa attesa forzata. Guardano il bus vuoto, buio. Guardano lo schermo con gli orari delle prossime partenze, anche se segna l’ora con qualche minuto di anticipo. Guardano l’aria davanti a sé, guardano i passanti, guardano me. Guardano per terra, guardano in tasca, altri hanno gli occhi chiusi. Sonnecchiano.
Finalmente arriva l’autista, che accende il bus. Si sale, si prende posto. Scelgo di sedermi dietro la brunetta magra magra, un po’ strabica e nervosa, ma carina. So che non le rivolgerei mai la parola, ma provo ad immaginarmi qualche scena da film. E in effetti accade una scena da film: sopraggiunge uno degli anziani più sudati e puzzolenti in cui mi sia mai capitato di imbattermi, che le si vuole sedere accanto. Come una gatta disturbata nel sonno o nel gioco, questa prende e balza nei posti singoli qualche fila più avanti. “Addio”, penso, ma la mia mente si riempie ben presto dell’allarme proveniente dalle mie narici: il vecchio puzza di rancido in maniera insopportabile! Mi sposto, e mi tocca sedermi di spalle rispetto al senso di marcia in uno di quei posti da quattro, costretto a fronteggiare le estroverse effusioni dei due giovani innamorati. Cerco di non guardarli, posando l’atteggiamento più assorto del mondo mentre direziono il mio sguardo fuori dal finestrino; ma non c’è niente da guardare, il pullman è fermo! Partiremo a breve. Non mi resta che una possibilità.
Scrivo, non sapendo cosa fare di meglio, e non potendo leggere (qui dietro l’autista non ha voluto le luci accese, vai a sapere perché); mentre la strada scorre, le mie dita danzano sulla tastiera al ritmo dei miei pensieri. Un ritmo cullato dalle fermate e dalle ripartenze, dal canto del motore che spinge, e spinge, e spinge verso casa, verso la vita, o verso l’oblio, una ventina di sconosciuti della stessa risma. La ninna-nanna urbana è una poesia di gusci concentrici, sfiati, e “ding!” degli scampanii estemporanei; i seggiolini fremono in tutta la loro rigidità di plastica alle mutevoli direzionalità delle vibrazioni causate dall’incedere-nonostante-tutto. È una festa galoppante l’aumento dei giri ad ogni accelerata, è una particolare danza quella delle nostre teste ciondolanti.
Dal finestino scintillano le luci della sera mentre scìano via veloci: sono loro a dirmi in tutta fretta che finalmente io ritorno a casa.