“Chissà…”
Gli alberi lì attorno, freddi e bagnati al punto da sembrare appena dipinti, gettavano una penombra sfumata, breve e sferica. La messa era finita almeno un’ora prima: e da lassù potevano scorgere il brulicare dei paesani distribuirsi nelle minuscole vie del centro, entro cui si sprecavano, nella rilassata atmosfera di una ordinaria domenica invernale, i vani tentativi delle occasionali automobili di farsi strada tra la gente.
Là in alto, al di sopra dei riti e dei programmi per la giornata, loro due non riuscivano nemmeno a guardarsi: stavano a parlarsi addosso, fianco a fianco. Le loro parole uscivano dalla bocca solo per disperdersi nell’aria circostante: batuffoli di vapore nella nebbia, e nulla più. Parole di zucchero filato buone solo per i rari passanti, capaci solo di additarli mentalmente, come si fa con les jeunes qui s’aiment: quelle parole effimere non facevano che scandire il ritmo di discorsi altri, gli stessi che, non detti, smettevano ora il loro antico riserbo, e finalmente comunicavano alla velocità dell’occhio le cose che, dentro, da sempre, vibravano le verità più forti.
Scese lo sguardo, salendo dalle vie del centro là sotto, alle mani là sopra: dita che trovavano altre dita, e la sensazione di calzare il guanto perfetto (per quanto si possa calzare un guanto). Così facile? Vivere tutti quegli anni, sfidando il freddo con le sole, nude mani, e di colpo afferrare la primavera e le sue promesse.
Salì lo sguardo, scendendo nelle infinite vie del cerchio, vedendosi visto: la conclusione del prossimo respiro iniziava la reciproca apnea. E chissà…
“Chissà…”, pensava, quando le campane iniziarono a suonare, solo per trovarsi infine a dire: «chissà se baciarsi di domenica è un peccato o una benedizione».