Ma galeotte furono molte conversazioni e fatti accadutimi.
Oggi sono abbastanza lucido: capisco qualcosa dell’origine del mio malessere nei confronti suoi.
Lei vive, io sopravvivo. Cioè, è quel che ho creduto di fare, quel che ho avuto intenzione di fare. Smettere di pensarla così è difficile, tutti voi probabilmente lo sapete meglio di me. Io sono l’idiota sentimentale; non “un”: “il” (sottolineato tre volte).
Riconsidero a sprazzi i brandelli della teoria secondo cui, in un rapporto adulto fra maschio e femmina, l’uomo deve instaurare un rapporto dispari con la donna, aumentando in lei il senso della dipendenza da lui. Ciò è esattamente il contrario di quanto sto facendo da cinque anni a questa parte. La paura mi ha fregato completamente. Una paura che trae origine da un certo egoismo, lo ammetto, e che poi ha inquinato ogni altra scintilla vitale scaturita in seguito. Non accetto critiche, non mi metto in gioco; che poi: non sempre, eh. Ci mancherebbe.
Ma andate avanti voi. Pregate voi. Studiate voi. Suonate voi. Organizzate voi. Io mi prendo il diritto di dissentire, rifiutare, trasgredire, giudicare. Da questa parte tutto è concesso… anche controllarti e spiarti, pensarti e ossessionarmi di te, e anche non solo di te. Tengo in tasca organi vitali grondanti sangue, che mi macchiano le mani d’un sangue invisibile agli altri: ogni freddo è una scusa per fregarsi addosso dolorosamente le nocche screpolate di pugni chiusi in silenzio e al buio. Mento avanti e occhi bassi, repliche in voce tremolante, supposizione muta.
Adesso basta, però. Adesso basta davvero.
Cambio. Decido che, al massimo, tu avresti dovuto dipendere da me. Ogni strada s’inizia col primo passo, e il primo passo è che non m’importa più se ti piaccio. Tu mi devi piacere, e così distante e interraziale non mi piaci per niente. Non so chi sei, Dea imperscrutabile, ma da cinque anni la genuflessione non porta né benedizioni, né miracoli. Solo incidenti e maledizioni.
Per un po’ io sono stato Dio; mi piaceva, ero nel giusto posto, là in alto, a crogiolarmi fra gli olocausti, le tavole della legge, i diluvi universali. Dio greco, capriccioso e umano, pazzo e nudo e vizioso. Un Dio romano, temporaneo e vano. Hai smesso di adorarmi, l’impalcatura è crollata. Ho trascinato ridicole vesti tutto intorno per farmi incensare nuovamente, e giustamente non è servito: il Dio non ti viene a cercare per essere adorato. Lo si adora e basta. L’adorato è diventato adoratore; l’uomo, donna. Recupero il senso di essere uomo, mi rimetto al centro della mia vita, dove succedono le cose che voglio che accadano.
Il medico siede sul tram affollato, fino a che non la rivede attraverso il finestrino.
Un mare di sangue e di passato allora comincia a liberarsi trasudando dalle crepe della diga, ora debole. Una mano sul petto è l’ultimo tentativo di arrestare l’emorragia.
Il primo colpo è inferto con una tale forza! Il medico si alza per reazione, boccheggia: può solo scendere al volo dal mezzo pubblico. I suoi passi errano dietro la scia di lei, che inconsapevole, marcia lungo il suo presente di aspettative, carriera, incontri, pomeriggi programmati. Il medico non può più parlare: la gola è serrata dalla gioia e dal dolore e dalle lacrime, la mano destra (l’unica utilizzabile) è un pugno allo stremo della tenuta. Il cuore impazzito è ormai incontenibile.
Grida il suo nome, ma è una smorfia muta: la maschera si muove e agita solo aria nelle vicinanze del suo naso vibrante. Un occhio scruta l’orizzonte sfumare giacché turbina in una spirale verso il grigio marciapiede; agitazione e mani e passi gliela nascondono per sempre al di là dell’allarme e degli aghi nel petto, dei chiodi nelle vene. C’è pace, adesso, al ritmo dei suoi passi in rapido allontanamento. Lei non saprà mai che dietro di lei è diventato freddo e morto un uomo, mentre il mondo proseguiva i suoi affari.