Dopo alcuni anni ho modificato questo post per applicare della CENSURA.
Mi sono *******!
In un caldo pomeriggio di agosto, ho deposto i miei *********.
(e il cervello ad azzerare il dolore)
E poi,
ogni mattina a versare latte, e a fagocitare, a masticare minuziosamente, ad ingollare durissimi frammenti. Ogni sorta di frammento. Nella mia scodella pre-post(a), inzuppavo biscotti enormi, ingombranti, ottundenti, ronzanti, pelosi, viscidi, volanti.
Vivi un cortocircuito mentale?
Vivo un cortocircuito mentale?
Copula: è vivo un cortocircuito mentale? Eccetera.
…
Ad ogni modo, presi ad avere noia. Presi a gonfiarmi di essa, a traspirarne ad atmosfere.
Noi, noia, noioso, io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so. Io so.
Nessun calore, se non nel breve lasso di tempo intercorso dallo spegnimento della lampadina ad incandescenza. Nel vuoto cosmico, un incommensurabile filamento di tungsteno andava raffreddandosi riscaldando. E tutto procedeva verso lo zero, pur assommando costantemente valori medi, scarti, delta, vettori nulli. Hai coscienza del tu scomparso fra l’adesso e l’Adesso?
Eppure, sei.
Di ******* in *******, fra i tuoi ***** e il ******, la tua ***** odorosa, il tuo pus, i tuoi germi e batteri… costantemente bellissima, femmina, attraente, umida, calda. Al di là di me, al di là del tuo giallo vestito a fiori. Quarantena.
(seduto in un angolo irrilevante, perduto e pentito osservo rimarginarsi la mia cicatrice ********, così simile a quell’apertura, ora tanto agognata, eppure tanto grottescamente dissimile, incompleta, inutile)
Da qui, sperimentavo con l’Attak. Il potente collante non penetra il teflon dei non-rapporti, e tutto è ricoperto dalle incrostazioni dell’infertile ****** secco.
La sabbia è ovunque, più dappertutto dell’arsura marina e si attacca, occludendole, alle mie narici avide, pronte a sbranare qualunque spazio, qualunque silenzio, qualunque sguardo indulgente: amami, *** ***!
La sabbia è ovunque, più dappertutto dell’azzerante sapore del sale che riga la mia faccia. Come si chiama il demone che mi fa visita ogni notte? Maldoror… lo odio. Lui non mi odia: ne è incapace. Eppure la sua stessa essenza acida reagisce col mio essere orizzontale, basico. Non inerte, e, anzi, oltre misura sensibile. Maldoror mi respira dentro, lingua su lingua, saliva in saliva. Le nostre rispettive mani sulle nostre rispettive cicatrici. E ci culliamo al buio indugiando sul piacere spiccio, colloso, buio, insoddisfacente e mai, mai, mai reciproco.
(lo specchio non riesce a riflettere i miei occhi visibilissimi)
[omissis] profonde radici nel mio animo marrone, legnoso, terroso, magmatico. Innumerevoli spade e gambe marcianti tuonano guerra da remoti campi di battaglia. Vent’anni gettati nella mischia, e, anzi, molti di meno: uomini o soldati? Scontro fra forze, e di chi è la proprietà dello scudo più invincibile?
Cade un petalo nero grande come la notte, fra i corpi dimenticati al sole. Il popolo vittorioso non avrà che da forgiare nuove mani, nuove spalle, nuovi membri per abbracciare una pace più lunga. Il dispendio calorico per il mantenimento sulla frontiera della guerra sporca e cattiva ha un leggero calo, ma si riprende. A regime. Con costanza, torno a riempire la mia scodella prima-dopo. Riapro gli antelli della cucina. Riapro i cassetti. Ne estraggo cereali e cucchiai, latte e biscotti. Rivedo rinascere il sole, riascolto ribattere la pioggia. Saluto nuovamente un giorno trascorso, riabbraccio quello nuovo. La rasserenante consistenza della ripetizione, l’ennesimo rituale con il suo carico di insignificanza matematica. Infinitesimo di ottant’anni suppergiù, e io che non ho punti notevoli.
Il ciclo gastrico ripete la conclusione di quello precedente, e via così. Considero la consistenza *** *** *****, ****** ** ***** della mia pancia. Comodo maiale astinente e viziato, ballo verso la fine della giornata, la fine della settimana, la fine del mese.
La fine della solitudine.