Estremamente caldo.
Abbondanti rivoli di sudore gli correvano sulla schiena, inzuppandogli la maglietta. Quasi se la strappò via, tanta era la foga con la quale Libero prese a spogliarsi. Inutile; adesso era anche esposto ai raggi del sole. Avvolgenti, viscosi, assordanti raggi solari. Un caldo insopportabile, una fornace senza limiti, senza fughe, senza portelli da aprire in tempo. Gli oggetti stavano in una dignità praticamente mortale: pali roventi, impraticabili panchine di legno scuro, immondezzai in plastica prossimi alla colatura, asfalto quasi al punto di ebollizione. A Libero sembrava che le sue stesse membra fossero di cera. Si allungò per uscire dai pantaloni, per trascinarsi fuori dalle mutande. Ora ansimava, nudo come un animale, nella posizione più sfracellata e dissipante possibile, senza il minimo apprezzabile risultato.
Ebbe finalmente l’idea, e allora prese a ritirarsi.
Al di sotto del derma e dei suoi fasci muscolari, l’anima di Libero cominciò a spostare lo scheletro dentro il suo corpo-tuta. Le dita della mano presero ad afflosciarsi ormai prive del sostegno osseo, trasformandosi in penzolanti sacchetti di vene, tendini, rosso e buio. L’articolazione del gomito ormai non corrispondeva più a quella zona più magra e secca della pelle del braccio che fino a poco prima ne rivestiva l’appuntita angolosità, andando così a spezzare la continuità di quella anomala manica di carne in un punto più alto, circa alla metà della misura entro la quale si sarebbe dovuto trovare l’omero. Sfilato un braccio, era facile ormai sfilare anche l’altro; e dopo qualche sforzo Libero ormai poteva scorrere le dita della propria volontà sulle pareti interne del proprio collo, allargandolo dalla base via via verso l’alto, oltre la mascella, oltre gli zigomi e oltre le pareti temporali del cranio. Giunto ormai alla sommità del capo, gli bastò forzare il punto più debole del proprio cuoio capelluto: il totem-Libero finalmente uscì dal suo stesso sacco epidermico, cominciando subito a disperdersi nel vento.
Senza più il sostegno della sua anima, le ossa si ammucchiarono sul sacco floscio che prima chiunque poteva definire “Libero”; come un gas, senza più i vincoli del contenitore fisico che lo imprigionava, ora poteva espandersi e completare l’atmosfera del mondo intero, rarefacendosi in lungo e in largo, contemporaneamente in qualsiasi alba e tramonto, o notte e giorno, del pianeta.
Libero il Vento era l’anima esalata da un giovane adesso davvero senza forma.
Quel che prima non era che il contenuto destinato a celarsi dietro ad una faccia che invecchiava (indifferente nell’indifferenza), era infine diventato pura sostanza. Una sostanza leggera, apparentemente nulla. Eppure così vigorosa e potente, che ora soffiava sull’eternamente giovane vecchio sé abbandonato sfatto sul selciato davanti casa a condividere la decadente condizione della materia.
Se cercate Libero, ora, lo potete trovare immerso nei suoi giochi, mentre sorregge, facendoli atterrare lievi, una miriade di fiocchi di neve; o mentre trasporta lontano i sospiri di chi ama, permettendo l’emozione di una vertigine che ti fa chiudere gli occhi nel vento gentile del crepuscolo.